memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) SANDRO PIERMATTEI1, ITALIA Cuvinte cheie: comunităţi rurale, deruralizare, migraţie, modernizare, istoricitate, transhumanţă, munte Departe de modernitate, departe de munte: povestea deruralizării în Munţii Sibillini (Italia) între istorie şi etnografie Rezumat A studia procesele de deruralizare în teritoriul Munţii Sibillini înseamnă a te referi la un subiect complex, cu care se confruntă specialiştii atât din perspective subiective, de explorare etnografică a istoriilor familiilor, cât şi din perspective istoriografice multiple, cu orizonturile lor interpretative diferite. Rezultatele acestei comparaţii sunt încadrate în încercările contemporane de a trece în revistă unele dintre aceste orizonturi, care de multe ori definesc în mod reducţionist contextele montane ca fiind închise şi înapoiate. Dimpotrivă, imaginea care iese la suprafaţă în urma unei examinări atente a istoriei locale şi a istoriei familiilor indică un spaţiu care este deschis şi permeabil la schimbările modernităţii în mod constant. Este un spaţiu în permanentă legătură cu teritoriile vecine, cu care are întotdeauna o ţesătură complexă de relaţii economice, sociale şi culturale. Studiul evoluţiei unor asemenea relaţii a dezvăluit rolul modernităţii cu propriile sale reprezentări şi relaţii de putere în a convinge masele de ţărani şi ciobani de presupusa lor antichitate şi inferioritate culturală. În plus, discursurile dominante ale modernităţii i-a convins de imposibilitatea lor de a avea un viitor în munţi. Tot acest complex de influenţe ale forţelor culturale şi economico-politice se găseşte la baza exodului numeros care i-a împins pe mulţi să plece: atunci când relaţiile de interdependenţă economică dintre zonele de munte, de câmpie şi oraşe s-au transformat într-o relaţie de dependenţă şi subordonare. 1 Università degli Studi di Perugia, Italia, sandro.piermattei@alice.it 22 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) Key words: rural communities, deruralization, migration, modernization, historicity, transhumance, mountain Far from Modernity, Far from the Mountain: the Story of Deruralization in Monti Sibillini (Italy) between History and Ethnography Summary Study deruralization processes in the territory of Monti Sibillini means addressing a complex subject in which scholars have to face both subjective perspectives, exploring ethnographically the family stories, and multiple historiographical perspectives with their different interpretative horizons. The results of this comparison are framed in those contemporary attempts to review some of these horizons that too often define reductively the mountain contexts as closed and backward. On the contrary, the picture that emerges from a careful examination of the local history and family histories indicates a space which is constantly open and permeable to the challenges of modernity. A space which is constantly in touch with neighboring territories, with whom it has always woven complex economic, social and cultural relationships. It was the study of the evolution of such relationships to have revealed the role of modernity, with its own representations and power relations, in convincing the masses of peasants and shepherds of their supposed antiquity and cultural inferiority. Moreover, the dominant discourses of modernity convinced them of the impossibility of having a future in the mountains. All this complex of cultural forces and economic-political influences lies at the basis of the strong exodus that pushed many to leave: when the relationships of economic interdependence between mountain areas, plains and cities have turned into a relationship of dependency and subordination. 23 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) Lontani dalla modernità, lontani dalla montagna: il racconto della deruralizzazione nei Monti Sibillini (Italia) tra storia ed etnografia (Continuare din numărul trecut) Spopolamento e forze di attrazione Da quanto appena detto intorno a quell’insieme di stimoli socio-culturali provenienti dal mondo urbano e veicolati da diverse agenzie politiche e mediatiche che spingono gli individui a vedere nella modernità urbana un progetto di vita agognato, si potrebbe facilmente concludere che le motivazioni alla base della scelta della migrazione permanente non sono da ricondurre esclusivamente a una crisi oggettiva dell’economia montana. In effetti, anche altri fatti confermano come la crisi e la crescente marginalizzazione economica della montagna nell’ambito dell’economia di mercato si configurino in quanto condizioni necessarie, ma non sufficienti, a spiegare l’esodo. Anzitutto, la costante espansione demografica che localmente si registra dal XIX secolo al 1951, ovvero proprio nel periodo in cui si consolidano i fattori di crisi legati alla crescente privatizzazione delle proprietà collettive e al declino della transumanza, contrasta nettamente con la teoria secondo la quale l’emigrazione è frutto del solo disagio economico. Solo dopo il 1951, infatti, comincia il vero e proprio declino demografico legato all’esodo, ovvero nel momento in cui si registra uno dei picchi più alti di densità demografica nella storia locale. Si potrebbe allora controargomentare che c’è un collegamento tra il binomio crisi-espansione demografica, la povertà crescente delle popolazioni montane e infine la scelta dell’esodo. Occorre però tenere presente come quello del 1951 non sia in assoluto il picco demografico più alto nella storia moderna locale e come precedenti espansioni storiche non abbiano di per sé provocato un esodo tanto massiccio come quello che si viene a registrare durante il secolo scorso. Queste considerazioni ci portano allora ad interrogarci sulla validità, per quanto concerne il contesto locale, di quell’immagine di una montagna in quanto “fabbrica d’uomini ad uso altrui”, che Fernand Braudel (1949) coniò per sintetizzare la storia moderna della montagna mediterranea. Lo storico francese, in effetti, la concepiva come un insieme di contesti chiusi e autosufficienti che diventano, in seguito all’espansione demografica, luoghi di miseria e povertà e che, in quanto tali, vengono abbandonati dai loro abitanti. Come hanno recentemente rilevato l’antropologo Dionigi Albera e la storica Paola Corti (2000), tale rappresentazione dei contesti montani mediterranei è stata recentemente messa in discussione, già a partire dalla fine degli anni Settanta, da numerose indagini condotte da storici, demografi, geografi e antropologi, che hanno osservato come teorie classiche della migrazione come 24 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) quelle del push-pull2 e della mobility transition3 presentino numerosi limiti interpretativi. Anzitutto questi modelli si fondano sempre su rappresentazioni stereotipizzate dei luoghi di partenza dei flussi migratori definiti in quanto contesti pre-industriali, o comunque economicamente arretrati, destinati (dalla storia) a passare da un modello economico fondato sulla sedentarietà-sussistenza a uno dominato dall’esodo di massa generalizzato. Rispetto a questo presupposto fondamentale, se i modelli push-pull esaltano la componente soggettiva e “razionale” delle migrazioni, mettendo in secondo piano i condizionamenti ambientali che di fatto contribuiscono a produrle, il modello del geografo americano Zelinsky tende, all’opposto, ad esaltare i condizionamenti contestuali del fenomeno migratorio, strutturandoli geograficamente e naturalizzandoli sul piano storico come processi ineluttabili del progresso economico. Da queste prospettive, l’emigrazione tenderebbe inevitabilmente a coincidere con l’industrializzazione e l’urbanizzazione e, così come nel caso della celebre espressione di Fernand Braudel, finisce per costituire l’indizio della presenza di contesti, come appunto quelli montani europei, strutturalmente arretrati, irrigiditi in una tradizione che non lascia spazio a nessuno slancio modernizzatore. Del resto, si è appena visto, come queste rappresentazioni, questi regimi egemonici di storicità, siano funzionali ad aggressive strategie di integrazione ed omologazione, socio-culturale ed economica, dei contesti locali. 2 Il modello fondato sui cosiddetti push-pull factors, o anche fattori di espulsione e di attrazione, proposto dal sociologo americano Everett Lee negli anni Sessanta, considera le migrazioni come il risultato di una valutazione intorno ai vantaggi e agli svantaggi che le possibili mete di destinazione del flusso migratorio potrebbero presentare rispetto alle condizioni materiali, esistenziali ed ambientali percepite nei rispettivi luoghi di origine. Si tratta quindi di un modello più descrittivo che esplicativo, un modello che “non ha bisogno di dimostrazione” (Lee, 1966, p. 52), poiché in grado di sistematizzare tutte le spinte, di matrice personale o ambientale, coinvolte nella decisione di emigrare. Tuttavia, tale modello “razionale” fornisce una lettura fortemente riduttiva del fenomeno migratorio. In primo luogo, esso tende a fondarsi su motivazioni personali di ordine esclusivamente materiale ed utilitaristico, ovvero su una valutazione differenziale tra la propria condizione economica nel luogo di origine e quella che si potrebbe ottenere nei luoghi di destinazione. Altri fattori espulsivi come l’insieme di condizionamenti politici, ambientali ed esistenziali avversi nei paesi o nei luoghi di origine finiscono per apparire come secondari. Questa linea interpretativa del fenomeno migratorio non è priva di importanti conseguenze sul piano politico. Anzitutto, la rappresentazione del mercato del lavoro come naturale “regolatore” dei flussi migratori, secondo il paradigma che a una riduzione delle differenze salariali tra paesi si verificherebbe anche una riduzione dei flussi. Spesso invece si nota come sia il mercato del lavoro ad essere influenzato dai flussi migratori, che contribuiscono di fatto a livellare i salari nei paesi di destinazione. Come inoltre ricorda Sivini (2006), questo modello tende a porre al centro del suo interesse esclusivamente il soggetto e non il contesto nel quale egli matura la sua scelta. Si tende pertanto a trascurare i fattori espulsivi, quasi sempre di natura “contestuale”, che non dipendono affatto dalle scelte operate dai singoli individui e ad alimentare rappresentazioni del migrante come unico responsabile delle sue azioni e decisioni. Un soggetto che ha il dovere di adattarsi allo stile di vita, alla cultura e ai valori del paese di accoglienza (concepiti peraltro come immutabili nel tempo) e quindi proprio per questo potenzialmente deviante e pericoloso per la sicurezza della comunità di arrivo. 3 Wilbur Zelinsky, americano, geografo culturale della Pennsylvania State University, ha formalizzato agli inizi degli anni Settanta la cosiddetta teoria della mobility transition, secondo la quale i modelli migratori interni a un paese dipenderebbero dal grado di sviluppo delle sua economia. Zelinsky individua così cinque distinti gradi di sviluppo a cui corrispondono altrettanti differenti modelli migratori. Il primo grado corrisponde ad un’economia di tipo pre-industriale, sorretta da una agricoltura di sussistenza, nella quale si registrano flussi migratori modesti tra aree agricole, ancora geograficamente prevalenti, e poche zone urbane, poco sviluppate. Al grado di sviluppo industriale corrispondono due modelli migratori, quello di transizione primaria e quello di tarda transizione. Nel primo si registrano consistenti spostamenti dalla campagna alle città industriali dove si possono ottenere migliori condizioni di vita e di reddito. Nel secondo invece i movimenti migratori tra aree urbane diventano prevalenti mentre l’esodo dalle campagne, ormai molto avanzato, rallenta per poi stabilizzarsi definitivamente. Infine, allo stadio di sviluppo post-industriale corrispondono gli ultimi due modelli individuati da Zelinsky, quello avanzato e quello super-avanzato. Nel primo, si assiste a un incremento dei processi che contraddistinguono la tarda fase transizionale dell’economia industriale, con flussi prevalenti tra piccole e grandi aree metropolitane. Nel secondo, si verifica un graduale ritorno alla campagna in termini di interurbanizzazione, in virtù delle strategie di agglomerazione progressiva dei centri periferici alle grandi aree urbane, di terziarizzazione dell’economia, di decentramento urbano delle attività industriali e del miglioramento complessivo dei trasporti che consentono di accorciare i tempi dei movimenti dei pendolari da e verso le città e quindi di vivere relativamente lontano dal proprio posto di lavoro. 25 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) Gli studi di ricerca sociale e storica citati da Albera e Corti hanno dunque contestato queste rappresentazioni dei soggetti migranti e dei fenomeni migratori, mostrando allo stesso tempo la rilevanza di tutta una serie di fatti. In primo luogo, importanti flussi migratori si segnalano nelle montagne del Mediterraneo anche durante l’epoca pre-industriale del cosiddetto ancien régime, un indizio del fatto che l’industrializzazione delle economie non costituisca una condizione necessaria al verificarsi di tali flussi4. In secondo luogo, mobilità a medio e corto raggio costituiscono pratiche consuete in molti contesti, specie quelli montani; tali flussi, inoltre, non si traducono necessariamente in uno sradicamento definitivo e irreversibile delle persone dai luoghi di provenienza. Infine, le migrazioni non appaiono sempre strettamente dipendenti da una carenza della produzione agricola nei luoghi di partenza: tale spiegazione, suggerita dal presupposto fisiocratico di un primato ontologico dell’agricoltura, si applicherebbe proprio a contesti economicamente arretrati come quelli montani. Relativamente al nostro contesto di studio, si può dedurre come queste considerazioni possano essere estese anche a questa parte della montagna appenninica. Nell’Alta Valnerina e lungo il versante sud-occidentale dei Monti Sibillini si assiste infatti, già a partire dal XV-XVI secolo, a una mobilità stagionale, legata ai flussi della transumanza tirrenica e a quelli dei grandi lavori agricoli, che fa parte integrante, direi anzi strutturale, di questa particolare economia montana5. Un capitolo a parte andrebbe inoltre riservato ai colporteurs umbro- marchigiani, soprattutto commercianti e merciai provenienti delle montagne intorno a Spoleto. Braudel stesso, citando il viaggio compiuto in Italia dal filosofo e scrittore francese Montaigne nel 1531, nonché una delle novelle pubblicate dal Bandello nella seconda metà del XVI secolo, segnala la vivacità imprenditoriale di questi soggetti. Essi vengono descritti come abilissimi rivenditori e intermediari senza scrupoli, capaci di spingersi perfino oltralpe, specie nei paesi Peisaj din Toscana (Italia); foto: Corina Isabella Csiszár dell’Europa Settentrionale, una rappresentazione ben lontana da quella del montanaro chiuso e rozzo che spesso si accompagna a quella di una montagna arretrata e povera. Del resto, come segnala il vocabolario della “Crusca” del 1612, il termine ciarlatano, che indica tutta una categoria di astuti imbonitori ambulanti che vendono unguenti dal decantato potere guaritore, cavano denti o praticano il gioco sulle piazze, deriverebbe con molta probabilità da 4 A conferma di ciò, un’inchiesta sui migranti temporanei effettuata in Francia nel 1811, mostra come anche all’inizio del XIX secolo in Italia le due zone di maggiore attrazione, ovvero la Pianura Padana a nord e la Maremma e la campagna romana al centro, fossero caratterizzate da flussi diretti verso le campagne, piuttosto che verso i grandi centri urbani (Radeff, 2000). 5 Lo stesso si può affermare, più in generale, per quanto riguarda i settori tosco-emiliano e umbro-marchigiano dell’Appennino, ambiti nei quali si evidenzia una “mobilità persistente” pressoché immutata in un periodo di quasi cinque secoli che va dal XV secolo, fino alle inchieste napoleoniche degli inizi del XIX. A tale riguardo, si vedano i lavori di Pinto (1982) sull’immigrazione di manodopera nel territorio senese a metà del XV secolo e di Corsini (1969) su Le migrazioni stagionali di lavoratori nei dipartimenti italiani del periodo napoleonico (1810-1812). 26 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) cerretano, ovvero “abitante di Cerreto di Spoleto” in Valnerina, “paese dell’Umbria da cui soleva in antico venir si fatta gente, la quale con varie finzioni andava facendo denaro”, come recita lo stesso vocabolario6. Questa abilità nel commercio, ma anche nel raggiro, è possibile, non di meno, riscontrarla ancora oggi in molti aneddoti di transazioni commerciali di derrate alimentari che vedono protagonisti astuti pastori e agricoltori locali, a seguito della transumanza, nelle maremme e nei mercati delle città toscane e laziali, racconti nei quali è proprio lo stereotipo del montanaro rozzo, povero e ingenuo ad essere abilmente sfruttato al fine di ingannare il proprio interlocutore e trarre un vantaggio economico. In età moderna, si assiste dunque al consolidarsi di un’economia translocalizzata, di un’economia nell’ambito della quale pastori, agricoltori, ma anche artigiani, commercianti e varie figure imprenditoriali si muovono per secoli interi non necessariamente in quanto forza-lavoro “ad uso altrui”, secondo il paradigma braudelliano, ma più spesso “ad uso proprio”. La transumanza e i grandi lavori agricoli nelle pianure maremmane e laziali mettono infatti a disposizione delle famiglie opportunità di lavoro e risorse economiche aggiuntive da impiegare al fine di stabilizzare le loro stesse condizioni materiali d’esistenza. Da queste considerazioni, non si può che concludere che, per quanto riguarda il contesto locale, le migrazioni stagionali facevano parte di un sistema piuttosto equilibrato, nell’ambito di un contesto produttivo articolato, si direbbe oggi multifunzionale, in grado di offrire molteplici strategie ed opportunità per il sostentamento dei suoi abitanti. Tra queste l’emigrazione stagionale si configurava come opzione consapevole di individui e famiglie che vedevano nello spostarsi la possibilità di sfruttare più convenientemente quello che sapevano già fare, ovvero quelle stesse competenze tecniche legate proprio alle attività agro-silvo-pastorali che venivano svolte in montagna. In particolare, per i piccoli agricoltori, proprietari o affittuari di fondi, l’emigrazione stagionale7 rappresentava, già nel Settecento, una forma di integrazione del reddito così indispensabile da accettare perfino di sfidare le difficili condizioni di vita nelle pianure tirreniche, caratterizzate dalla diffusione della malaria. Tuttavia, lavori agricoli e pastorizia nelle pianure hanno da sempre costituito solo alcune tra le tante altre opzioni lavorative possibili, relative ad attività e a competenze tecniche comunemente diffuse sia tra i pastori che tra gli agricoltori, come ad esempio la norcineria, la tessitura e le attività del canapino, vari altri lavori artigianali connessi o meno alle risorse forestali, nonché, ovviamente, il commercio nel settore agroalimentare (Biagianti, 1989). Queste competenze tecniche sono state sempre sfruttate, anche nel XX secolo, in altri poli di attrazione, alternativi rispetto alle fertili campagne laziali e maremmane. Si tratta dei centri urbani del Lazio e della Maremma e, in modo particolare, della città di Roma, dove nel 6 Per ulteriori approfondimenti sulla figura storica del cerretano nei territori del folignate e dello spoletino si vedano i lavori di Sensi (1978 e 1982). Per quanto riguarda invece l’importanza economica dei vari mestieri ambulanti in Valnerina, legati in modo particolare all’esercizio della norcineria, si veda Giacchè (1987 e 2002). 7 L’emigrazione stagionale di braccianti e agricoltori era possibile per via della complementarità fra ciclo cerealicolo breve delle campagne tirreniche e ciclo cerealicolo lungo della fascia appenninica. In ottobre veniva effettuata l’aratura e la semina sugli Appennini, dopodiché i contadini si trasferivano nelle pianure tirreniche dove effettuavano queste operazioni colturali. Subito dopo la mietitura i coltivatori ritornavano in montagna dove i raccolti sarebbero, stati maturi in luglio. Inoltre, la rottura del maggese, che nelle Marche veniva effettuata in agosto, nel Lazio avveniva in genere in febbraio. Per comprendere la stretta interdipendenza che si instaura tra Appennino e pianure tirreniche a partire dal XVIII secolo è necessario considerare, accanto alla compatibilità fra i due sistemi agricoli, la loro, complementarità in termini di disponibilità di lavoro. La scarsa presenza umana delle pianure costiere tirreniche faceva apparire questi territori come vuoti. A questa situazione si contrapponeva la popolosità delle aree montane appenniniche, il cui sovraccarico demografico aveva cominciato a manifestarsi fin dalla fine del XVIII secolo. D’altra parte, le difficili condizioni di vivibilità delle pianure tirreniche, condizionate dalla diffusione della malaria, limitavano fortemente l’insediamento stabile e costituivano un ostacolo a forme di emigrazione stabili. 27 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) tempo si sono riversati uomini e donne, nonché interi gruppi familiari, che hanno cominciato ad intraprendere attività artigianali o commerciali che in molti casi già praticavano nei paesi montani di origine, o lungo i percorsi della transumanza. Nelle città, queste attività trovano modo di essere sviluppate e impiegate autonomamente o a servizio dell’industria manifatturiera e alimentare, nonché di altre imprese nel ramo dei trasporti e del commercio. Si tratta pertanto di riadattare le proprie competenze nell’ambito di un’economia e di un mercato del lavoro più orientati alla produzione industriale. È proprio in questi termini che molti anziani mi raccontano dei principali tipi di occupazione degli emigrati. Esse riguardano anzitutto il settore agro-silvo-pastorale (operai campestri, sterratori impiegati nelle zone di bonifica, tosatori e massari) e quello agroalimentare e si concretizzano in attività sia di tipo artigianale, che di tipo commerciale (norcineria, macelleria, negozi di alimentari e di frutta e verdura, produzione artigianale e commercializzazione di formaggio, pane, …), attività sostanzialmente in linea con le competenze degli agricoltori e non solo per quanto riguarda la scelta dei prodotti e la conoscenza dei prezzi della merce. Come ho avuto modo di osservare in numerosi casi, queste abilità potevano anche essere impiegate nel contesto delle produzioni industriali del settore lattiero-caseario o di quello per la produzione di salumi e insaccati. Molti sono anche coloro i quali vanno ad esercitare mestieri di altro tipo, più o meno qualificati, come quelli di falegname, muratore, carbonaio, fabbro, meccanico, agrimensore, occupazioni anch’esse funzionali allo svolgimento delle attività produttive in montagna. Altri ancora, carrettieri specializzati nel trasporto di merci e bestiame nell’ambito della transumanza, troveranno modo di impiegare questa competenza, come vetturini prima e tassisti poi, nella Capitale. Infine si segnalano anche molte donne, impiegate nel preparare e distribuire i pasti nell’ambito dei grandi lavori agricoli, che in seguito apriranno osterie, ristoranti e mescite nelle città della Maremma e a Roma. Non mancavano quindi gli emigranti appartenenti ad una più vasta gamma di attività lavorative, rispetto a quelle del solo settore agro-silvo-pastorale, nonché individui e famiglie di élites di notabili locali, gruppi familiari che si distinguono per la creazione di redditizie attività imprenditoriali nei settori del commercio, dell’edilizia e dei trasporti o nella gestione capitalista delle attività silvo-pastorali che facevano capo alla transumanza e ai grandi lavori agricoli. Da questo punto di vista, in queste attività appaiono coinvolte tutte le fasce sociali di una montagna che di fatto “produce uomini” ad uso delle sue stesse élites, piuttosto che a quello di élites esterne, seppure presenti nei complessi rapporti di potere sui quali si edificava la mobilità stagionale. Se ne ricava dunque il quadro di una mobilità non dipendente dall’industrializzazione, che non si traduce necessariamente in sradicamento e, infine, non causata necessariamente da povertà o insufficienza della produzione agricola. Come affermano Albera e Corti: “All’immagine passiva della società di montagna vista come semplice “serbatoio” di uomini si è andata contrapponendo un’immagine più attiva e composita nella quale i montanari non solo dispongono di risorse e di conoscenze, ma formulano anche progetti, scelgono gli itinerari, selezionano oculatamente le opportunità economiche. Da questo nuovo angolo visuale si prospetta dunque una visione alternativa: in questo caso sono le pianure e le città a diventare delle risorse da utilizzare, a proprio vantaggio, da parte dei montanari.” (Albera, Corti, 2000, p. 12). Da questa immagine della montagna si ricavano almeno due considerazioni di grande importanza. Da un lato, esse smentiscono la valutazione di isolamento e cronica arretratezza culturale dei sistemi montani mediterranei. Al contrario, è proprio la percezione consapevole e socialmente condivisa di altre realtà e di altre opzioni di esistenza, a far decidere gli individui ad impiegare in esse le loro competenze; decidendo o meno di farlo, essi non sembrano attuare passivamente una 28 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) sistematica sostituzione di competenze a vantaggio di altre più funzionali al modo di produzione industriale. In secondo luogo, nel valutare il fenomeno dell’emigrazione da questi territori, occorre non sottovalutare il ruolo che ha giocato e che continua a giocare ancora oggi la disponibilità di reti sociali in grado di facilitare la pratica dell’esodo nei territori di destinazione. L’antropologo Pierpaolo Viazzo, studiando gli andamenti demografici e i flussi migratori che hanno interessato la comunità alpina di Alagna Valsesia e giungendo alla conclusione che “l’emigrazione era dovuta più a forze di attrazione che a forze di espulsione” (Viazzo, 1989, p. 27), ha mostrato come tali forze fossero tanto più presenti, quanto più i contesti urbano-industriali di attrazione fossero limitrofi a quelli di partenza, nonché oggetto di un vero e proprio pendolarismo. Anche nel contesto appenninico oggetto di questo lavoro, tali forze appaiono costantemente “in agguato” in quanto si tratta di una realtà da sempre in rapporto di pedolarità stagionale con i contesti ambientali e sociali della Maremma e dell’Agro Pontino e Romano. Lo storico Girolamo Allegretti rileva molto efficacemente le molteplici valenze socio-culturali, ma anche quelle di ordine emotivo e psicologico implicite nel rapporto con questi territori vicini: “La Maremma, un west a cinque giorni di cammino, che dà lavoro a tutti, a pochi il benessere, a qualcuno la morte, è anche questo, il richiamo di più aperti orizzonti, fisici ed esistenziali. È la possibilità di rompere il celibato coatto dei piccoli proprietari, è l’affrancamento dalla interminabile subordinazione al capofamiglia, è il campo aperto alla trasgressione per gli inquieti, la terra franca degli inquisiti e degli innumerevoli contumaci che laggiù possono rifarsi una vita” (Allegretti, 1987, p. 518). Un territorio a portata di mano, sinonimo di libertà da certi vincoli e di opportunità nuove, alle quali si aggiungono quelle offerte dai contesti urbani, come ad esempio quello della Capitale. Quest’ultima va certamente a costituire il modello urbano-industriale di riferimento, costantemente presente nelle vite di molti, nonché nella storia della maggioranza delle famiglie. I racconti di chi, come Roberto di Vallinfante (sessantenne - Castelsantangelo sul Nera, MC), si recava, già a partire dai dodici anni (in un primo tempo insieme al padre e poi autonomamente), in Maremma o nell’Agro Romano e Pontino come pastore salariato, a parare le pecore di alcuni grandi proprietari della zona di Castalsantangelo (località particolarmente ricca di pascoli montani che l’amministrazione locale affitta in estate anche ai pastori laziali), evidenziano molto bene la natura e la consistenza delle estese reti sociali che si venivano a creare attraverso le pratiche della migrazione stagionale. Roberto mi racconta che si aveva modo di conoscere molte persone, di stringere intensi legami di amicizia e molto spesso succedeva anche di assistere a fidanzamenti e matrimoni, sia tra pastori laziali e donne provenienti dall’Appennino, che tra pastori transumanti e donne laziali, abruzzesi, molisane, toscane incontrate nelle maremme o nelle città e cittadine del Lazio e della Toscana. I contatti con realtà esterne alle comunità locali erano dunque costanti e intensi, spesso fondati su legami di parentela, ma anche rafforzati dall’azione delle élites locali. Queste ultime, in particolare, hanno sempre operato intessendo reti e relazioni sociali, creditizie, economiche, che si estendono da e verso i luoghi di provenienza dei flussi. Si conferma quindi il quadro di un’economia vivace, praticata “su territori nel quali le vicinanze e le distanze più che sul piano geografico sembravano calcolabili su quello delle relazioni e degli spazi sociali” (Albera, Corti, 2000, p. 16), una sorta di spazio non-euclideo, non metricamente qualificabile (Gribaudi, 1997). Tale è dunque il contesto che ha facilitato per lungo tempo i flussi di trasferta stagionale imposti dalla transumanza e poi, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, quelli legati alla ricerca di nuove fonti integrative di reddito, quando quel delicato equilibrio tra risorse umane familiari e impresa familiare sembra definitivamente entrare in crisi (Spada, 2002). È infatti in 29 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) questo periodo di forte crisi, un periodo ricco di nuove opportunità legate alla ricostruzione post-bellica, un periodo nel quale si registrano anche quelle diffuse influenze di natura socio- culturale di cui si è parlato nel paragrafo precedente, che l’emigrazione stagionale tende a diventare emigrazione stabile di famiglie e persone, soprattutto giovani, attratte da altre prospettive occupazionali e di vita. È proprio in quel preciso momento storico che quell’equilibrio costruito nei secoli su un modello di economia translocalizzata appare incrinarsi, compromettersi, al contrario di quanto sembra verificarsi nel modello alpino della mobilità studiato da Viazzo ed altri. La storia che si sta raccontando in queste pagine, appare così la storia di un esodo che si fa gradualmente irreversibile, diventa vero e proprio spopolamento. Sebbene infatti si debbano pur considerare gli effetti di una crisi della transumanza e delle proprietà collettive già consumate e ormai irreversibili nel nuovo contesto globale dell’economia mondializzata che inizia ad affermarsi a partire dagli anni Cinquanta, non si tratta solo di spopolamento dovuto ad espulsione, come una lettura essenzialista e riduttiva di una montagna storicamente povera e arretrata potrebbe far credere. Si tratta, come si è detto, di una attrazione irresistibile che viene a prodursi da parte di altri contesti rurali limitrofi o di contesti urbani che improvvisamente cessano di costituire una risorsa economica per i territori di partenza dei flussi. In questa fase, tali contesti cominciano a costituire un’opportunità, non solo economica, di realizzare un nuovo stile di vita. Da questa prospettiva, ciò che si è detto relativamente al senso di inadeguatezza e di arretratezza culturale avvertito allora da molti giovani agricoltori e pastori, acquista un significato più ampio rispetto alla sola considerazione delle prospettive di modernizzazione del contesto locale. La percezione dell’inadeguatezza culturale del contesto locale agisce anche da fattore decisivo in grado di spingere gli individui ad abbandonarlo. In tale situazione, i fenomeni di emulazione tra compaesani e parenti finiscono per rivestire un ruolo di primaria importanza. I migranti infatti trovano modo di fare esperienze lavorative diverse nei contesti di destinazione, spesso incoraggiati, impiegati o introdotti da parenti o conoscenti che si sono già stabiliti da tempo. Rispetto a queste dinamiche anche Desplanques segnala, alla fine degli anni Sessanta, come gli uomini che vanno in Maremma e a Roma, “vi lasciavano talvolta i figli al liceo o all’università” (Desplanques, [1969] 1975, p. 701). Questi sono i fatti che certamente contribuiscono a far diventare l’emigrazione da stagionale, a permanente. Inoltre, i legami di amicizia e di parentela con coloro i quali se ne sono andati o si è avuto occasione di conoscere durante qualche stagione di lavoro, costituiscono vere e proprie risorse, non solo economiche, a cui ricorrere nei momenti di maggiore difficoltà. Ancora oggi molti ricordano i disagi e delle privazioni derivanti dalla condizione di lavoro subordinato in montagna. Emanciparsi dal bisogno e rendersi economicamente più autonomi, con l’affitto o l’acquisto di qualche piccolo podere o di un modesto gregge, costituisce l’obbiettivo principale di molti, costretti a fare i braccianti o gli operai forestali, sia in montagna che fuori8. Un’alternativa possibile, ma non praticabile da tutti, è quella di imparare un altro mestiere, di artigiano, trasportatore, commerciante o ristoratore, che è possibile mettere a frutto anche fuori del proprio territorio natale. Si tratta di due strategie in un certo senso opposte, una più aperta alla possibilità di un radicamento definitivo sul territorio, l’altra più vicina a quella dell’emigrazione definitiva. Quando la crisi della transumanza e delle proprietà collettive in montagna si fa più 8 Numerose sono le testimonianze storiche relative alla durezza delle condizioni di lavoro a cui venivano sottoposti pastori e braccianti durante queste trasferte stagionali dalla montagna. La storica Anne Radeff cita ad esempio le parole del prefetto del dipartimento del Trasimeno che nel 1812 parla di stenti, malaria, malnutrizione e soprattutto dei ricatti economici per cui molti di questi lavoratori si piegano a lavorare in queste condizioni per onorare i debiti contratti con i fattori o i ricchi proprietari locali durante qualche magro inverno (Redeff, 2000). 30 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) evidente e drammatica, ecco che allora queste due opzioni, prima integrate all’interno dello stesso nucleo familiare, tendono a disgregarsi e comincia la fase dell’esodo irreversibile. Tale quadro è confermato dalla situazione che si registra, in modo più marcato, lungo l’Appennino meridionale. Massullo (2000), nel suo studio del caso molisano, rileva come, al contrario del modello di mobilità alpino, non si assiste al consolidarsi di un tessuto economico legato alla crescita di importanti manifatture industriali nella fascia prealpina tale da consentire una nuova mobilità che non si traduca in esodo generalizzato. Tra fine Ottocento e metà del Novecento, lungo l’Appennino molisano comincia già a realizzarsi quell’esodo irreversibile che si intensificherà a partire dal Secondo dopoguerra, un esodo nel quale uomini e donne cominciano a recarsi stabilmente nelle americhe e ancora più spesso nelle città di Roma e Napoli: “è, crediamo, opportuno a questo proposito parlare di scambio reciproco tra montagna e pianura. Scambio che si è andato però modificando storicamente, a volte e in determinate circostanze a favore dell’una o dell’altra area, ma che, nel lungo periodo, almeno nella montagna molisana, si è evoluto a favore della pianura […] con la messa a coltura del Tavoliere e la crisi della transumanza, con l’espansione di colture intensive nelle pianure del versante tirrenico9, a seguito dell’accresciuto richiamo delle grandi città, soprattutto Roma, il baricentro si sposta verso la pianura. Nel Secondo dopoguerra, l’attrazione dei poli industriali […] resa irresistibile dall’assenza di una struttura industriale locale, faranno della montagna molisana – ma solo a questo punto – veramente soltanto una “fabbrica d’uomini”.” (Massullo, 2000, p. 151)10. Queste conclusioni sembrano descrivere bene anche le dinamiche alla base delle molteplici ondate migratorie che partono dall’Alta Valnerina umbro-marchigiana, tra XIX e XX secolo. Lungi dal voler suggerire un modello diacronico della mobilità appenninica nell’ultimo secolo, queste considerazioni sembrano tuttavia indicare il verificarsi, in diverse aree appenniniche del Secondo dopoguerra, di un certo rapporto tra sviluppo dell’emigrazione permanente e quello di aree industriali, commerciali e manifatturiere piuttosto lontane dai luoghi di provenienza della mobilità montana, diversamente da quanto accade in quelle prealpine, più vicine, se non addirittura contigue, ad essi. Del resto, anche nei cinque comuni appenninici tra Umbria e Marche di cui ci si sta occupando, i dati statistici relativi al processo di deruralizzazione, in rapporto alla consistenza quantitativa dell’esodo rurale nel Secondo dopoguerra, confermano un quadro di irreversibile spopolamento della montagna e quello economico di una migrazione che non serve più a stabilizzare e integrare l’economia montana, ma serve ormai prevalentemente a produrre reddito nei luoghi di destinazione dei flussi. Da questa prospettiva, il lungo periodo di recessione che inizia a partire dalla fine del XVIII secolo, sembra agire in modo tale da rendere sempre più pesante la dipendenza economica di queste montagne dalle pianure tirreniche e dai loro centri urbani11: 9 Un processo analogo si realizza infatti anche in Maremma e nella campagna romana dove le bonifiche e la conversione di estesi territori in seminativi provoca la graduale riduzione dei pascoli, l’elemento essenziale sul quale si reggeva l’economia transumante. 10 Lo stesso andamento storico del fenomeno viene registrato nello studio di Dadà sull’Appennino Toscano che riporta, a partire dagli anni Cinquanta, “lo stanziamento definitivo fuori dall’area appenninica dei nuclei familiari che fino ad allora avevano sorretto il fenomeno dell’emigrazione di andata-ritorno, anche se per periodi sempre maggiori” (2000: 161). 11 Si tenga tuttavia presente che, durante il XIX secolo, le prime forme di emigrazione stabile si indirizzano soprattutto oltre confine, verso altri paesi europei o il continente americano, in quanto le condizioni per l’emigrazione verso l’Agro Pontino o la Maremma sono ostacolate da un’attività agricola in questi luoghi ancora alquanto difficoltosa da realizzarsi in quanto forma stabile (Mercurio, 1989). Solo in seguito, a partire dagli anni Venti del Novecento, le ondate migratorie si concentreranno più prevalentemente verso Roma o altre zone delle vicine Marche, del Lazio, dell’Abruzzo (Ciuffetti, 1998). 31 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) dopo alcuni secoli di una pendolarità ininterrotta, gli uomini e le loro famiglie hanno intessuto profondi legami tra questi territori e quelli di provenienza e se in passato l’emigrazione permanente costituiva solo una possibilità, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, essa diventa tendenza generale nell’ambito di uno spopolamento di massa che sembra ormai irreversibile. Deruralizzazione, modernizzazione e mercato Nel territorio dei Monti Sibillini, tra il 1951 e il 1991, si registra una variazione della popolazione attiva del -59,4%. Tale forte riduzione è da attribuirsi principalmente ai processi di deruralizzazione ed esodo, anche tenendo conto di altri fenomeni come quelli dell’estensione dell’obbligo scolastico (dai 10 ai 14 anni), del proseguimento degli studi da parte di un numero crescente di giovani o dell’abbassamento dell’età media di pensionamento. Un confronto tra la curva dell’andamento demografico e quella degli occupati in agricoltura e in altri settori, può contribuire a dare un’idea più precisa del nesso tra il fenomeno dello spopolamento conseguente all’emigrazione e quello della deruralizzazione. Nei comuni di Norcia, Preci, Visso, Ussita e Castelsantangelo si nota un valore pressoché costante delle quote di occupati in settori differenti a quello agricolo, pur con qualche variazione tendente alla crescita che si attesta mediamente dal 6 al 10% ogni decennio, nei sei decenni che vanno dal 1951 al 2001. Tali variazioni si spiegano, in effetti, con una certa terziarizzazione delle economie locali e lo sviluppo di alcuni distretti industriali e commerciali, sia in aree limitrofe del maceratese e della montagna pesarese, che negli immediati dintorni di Norcia, Preci e Visso (si tratta, in particolare, di industrie del settore alimentare). Tuttavia, a fronte di questi modesti assorbimenti di manodopera da parte di altri settori, gli occupati in agricoltura calano in una progressione geometrica che vede praticamente ad ogni decennio il dimezzamento delle quote per ogni singolo comune. Si tratta di una progressione che tende a sovrapporsi a quella dell’andamento demografico, anche se occorre sottolineare che il calo degli occupati in agricoltura appare più rapido e costante di quello demografico, che invece rallenta a partire dalle rilevazioni ISTAT del 1971, segnando addirittura alcuni modestissimi saldi positivi tra 1991 e 2001, come a Norcia e a Castelsantangelo. Pertanto, ferma restando la vocazione agro-silvo-pastorale di questi territori, con tassi di occupazione in questo settore più alti delle medie provinciali, una profonda deruralizzazione del territorio ha avuto luogo, deruralizzazione che ancora oggi non sembra accennare a fermarsi. Tra il 1951 e il 1981, essa tende dunque a coincidere con l’esodo, registrando la sua massima intensità agli inizi degli anni Sessanta, come conferma anche Tullio Seppilli, quando scrive che “l’esodo rurale ha assunto livelli di tale rilevanza da rappresentare uno dei processi fondamentali del fenomeno di deruralizzazione” (1965a, p. 97). Tra il 1981 e il 2001, invece, l’esodo inizia a rallentare e la deruralizzazione continua sottoforma di un ulteriore calo, più rallentato rispetto al periodo precedente, degli occupati in agricoltura. A questo calo fa effettivamente riscontro un modesto aumento, quasi esattamente corrispondente, delle quote di occupati negli altri settori. L’appeal di altri territori, rispetto a quelli locali, si fa evidentemente meno irresistibile in questi ultimi trent’anni, mentre i territori locali sembrano finalmente in grado di assorbire anche coloro che non sono più attratti dall’occupazione agricola. Studi recenti, nonché le numerose testimonianze orali raccolte durante la ricerca, quando parlano di mancanza di sufficiente forza lavoro nell’ambito della piccola conduzione familiare, la mettono in relazione a sottoutilizzazione della risorsa-terra, dequalificazione a incolto delle terre marginali e semplificazione ecosistemica (Allegretti, 1987; Piermattei, 2012a). Inoltre, la riduzione 32 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) delle quote di manodopera disponibile, accompagnata da un maggiore ricorso alla meccanizzazione ma anche da una mancata o parziale modernizzazione dei sistemi di coltivazione, porta a ulteriori disboscamenti funzionali all’allargamento della cerealicoltura, a detrimento di scelte innovative volte a favorire una sistematica introduzione delle foraggere e di più razionali sistemi di allevamento. Ciò si traduce in scarsità di concimi animali e, dunque, in un decremento della produttività, tanto più grave se si tiene conto che nel contesto montano i terreni sono spesso poveri e disagevoli (Bettoni, Grohmann, 1989)12. Anche altri fatti indicano, in rapporto al mutamento degli stili di vita, il cambiamento dei rapporti economici dei contesti locali con realtà esterne e in particolare con i territori di destinazione dei flussi migratori. Anzitutto, dalle ricerche svolte sull’agrobiodiversità locale si nota sia il mutamento dei gusti alimentari, che un maggior ricorso a varietà di piante coltivate non locali. Caterina F. di Villa Sant’Antonio (Visso – MC) gestisce insieme al marito un negozio di alimentari con produzione propria di salumi e pane. Per lungo tempo questa signora ha lavorato, da giovane, insieme ai fratelli, che già prima della guerra commercializzavano a Roma molti prodotti locali, tra i quali la ben nota lenticchia di Castelluccio. Caterina mi racconta come già molto tempo prima che iniziasse questa attività, molte erano le famiglie che andavano a fare mercato a Roma, portando con sé formaggi, carni, salumi, pane, vari tipi di ortaggi e prodotti agricoli, frutta fresca e secca, insomma una grande varietà di derrate alimentari dalle quali era possibile ricavare somme di denaro non indifferenti. Dopo la guerra, invece, lo scenario sembra cambiare radicalmente. In primo luogo, la nuova economia di mercato introduce quote crescenti di prodotti, vecchi e nuovi, spesso provenienti da altri paesi europei, a prezzi sempre più competitivi. In secondo luogo, cominciano a cambiare lo stile alimentare e i gusti delle persone, in particolare quelli dei giovani. Già dieci anni dopo la guerra, sostiene Caterina, tanti prodotti locali escono dal mercato romano, eccetto pochi salumi, qualche partita di formaggio e, ovviamente, le lenticchie, che però vengono prevalentemente consumate nel periodo natalizio. Così, cambiano anche le strategie commerciali e si viene ad attuare una specie di inversione dei flussi delle merci con numerosi prodotti, provenienti da Roma e non solo, che invadono le tavole locali. L’invasione riguarda anche le colture praticate negli orti: molti degli agricoltori anziani contattati attraverso la ricerca affermano infatti di aver cominciato a coltivare anche molte varietà non locali di ortaggi in quel periodo, in particolare fagioli e patate, acquisiti attraverso le reti commerciali (negozi di alimentari, empori, consorzi agrari,…) o quelle del dono da parte del parente emigrato o dello scambio con qualche lavoratore stagionale. Le comunità e le economie locali vengono così a perdere gradualmente la loro autonomia e l’equilibrio rispetto ai territori di 12 L’attuale scarsità di concimi animali è un fatto lamentato da molti anziani. Esso viene messo in relazione con la forte riduzione dell’allevamento ovino e bovino dovuta sia alla mancanza di manodopera che al minor ricorso alla forza animale. Questa situazione, secondo molti, avrebbe spinto gli agricoltori ad un maggiore utilizzo dei fertilizzanti chimici, al fine di fare fronte al calo della disponibilità di concime organico. Ciò non fa che aumentare la sensazione di perdita dell’autonomia aziendale e familiare, ovvero della possibilità di poter lavorare e vivere reggendosi esclusivamente sulle risorse umane familiari e sul proprio bestiame, senza fare eccessivamente ricorso al mercato esterno per merci che non fossero quelle solitamente prodotte in famiglia. Così se prima si vendeva qualcosa solo per poter acquistare vestiti, scarpe e una minima quota di ciò che si mangiava, con lo spopolamento e la meccanizzazione-chimicizzazione dell’agricoltura diventa indispensabile fare ricorso al mercato per acquistare nuovi input. La sensazione di autosufficienza offerta dalle macchine, in regime di erosione della manodopera prima disponibile, è quindi effimera e passeggera e presto si trasforma in crescente indebitamento, in un aumento del bisogno di maggiori quote di capitali. La scarsa disponibilità di concimi animali è inoltre messa in relazione, ironicamente, alle attuali forme dell’agricoltura biologica, criticate dagli anziani per il ricorso ad input ritenuti in ogni caso poco naturali rispetto a quelli tradizionali. 33 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) destinazione di quella che prima era una migrazione stagionale. Perfino l’emigrazione di molti artigiani, oltre a costituire un fatto che contribuisce ad impoverire l’intera struttura socio-economica delle collettività montane (Allegretti, 1987; Mazzoni, 2000), segna di fatto la fine dell’autonomia tecnologica dell’agricoltura montana, poiché si tratta spesso di mestieri funzionalmente collegati alle pratiche e alle lavorazioni agricole. Da questo punto di vista, la riduzione della presenza di molte attività artigianali locali, di supporto o connesse con la produzione agricola e zootecnica (meccanici, fabbri, falegnami,…) aumenta la sensazione di disagio di coloro i quali restano in montagna. Orazio di Castelsantangelo sul Nera (MC), a tale proposito afferma: qui sò venuti a mancare gli artigiani, se ti serve… se ti dovesse servire, che devi prendere non so, parlamo de un vomero de ‘n aratro, de ‘n trattore no a Visso non c’è più manco ‘l ferraro [il fabbro]. Mo uno un po’ de tempo fa è anziano, morto quello è finito. I ferrari a Visso ce n’erano quattro o cinque all’epoca mia de quando ero giovane, qui ce n’erano altri quattro o cinque, falegnami… qui ce n’era, c’era la segheria, c’era ‘l falegname poi dopo altre due botteghe, poi un’altra stava sulla frazione qua. E te davano anche la possibilità de imparare no. Andavi dal falegname, te mettevi lì, imparavi, capito e dovevi pagà ‘l falegname che te imparava perché il maestro ce vole dappertutto, ce vole il maestro pe’ la scola e quello che fa un mestiere è un maestro… poi quello che è scaltro…ruba il mestiere coll’occhi. Per Orazio si crea dunque una situazione per la quale non solo il lavoro agricolo non è più, di fatto, localmente autosufficiente, ma anche l’offerta formativa locale, relativa ai percorsi di trasmissione dei saperi artigianali, viene ad impoverirsi: la mancanza di artigiani rende infatti impossibile ai ragazzi l’apprendimento in situ di altri mestieri e ciò incoraggia ulteriormente l’esodo nonché la ricerca di occupazioni meno legate a un lavoro di tipo manuale. Questa situazione sociale ed economica corrisponde a un quadro nel quale il processo di spopolamento della montagna sembra quasi autoalimentarsi. Infatti, più sono le persone, ma anche le professionalità, che l’abbandonano, tanto più, in chi rimane, cresce la sensazione di un contesto locale ormai deteriorato. Allo stesso tempo, dalle città e dalle campagne oggetto di immigrazione, aumentano i richiami e gli appelli di vicini e parenti a trasferirsi, al fine di trovare migliori condizioni di vita. Si chiude così il cerchio. Torna ancora una volta quel tema dell’omologazione del contesto locale verso stili di vita e di consumo urbani che si è visto agire nel motivare anche le scelte di chi ha deciso di andarsene in un momento di particolare crisi dell’economia, già da secoli translocalizzata, di queste montagne. L’impossibile modernizzazione della montagna appare quindi, nuovamente, come il frutto di una serie di scelte consapevoli. Una parte di queste scelte, chiaramente di ordine politico-economico, sono state operate dai saperi e dalle classi egemoni e sono state legittimate dai regimi di storicità del cosiddetto progresso agro-industriale. Tuttavia, un’altra importantissima parte di queste scelte è di tipo socio-culturale, elaborata consapevolmente, anche se non del tutto autonomamente, dagli strati sociali subalterni. Solo in minima parte questa “impossibile modernizzazione” appare come il risultato di una autentica inadeguatezza strutturale, che sembra piuttosto costruita materialmente, economicamente e culturalmente, e che ancora oggi agisce come convinzione nelle attuali generazioni di imprenditori e agricoltori anziani che, in molti casi, la trasmettono ai propri figli e ai propri nipoti. Da questa prospettiva, l’esodo appare 34 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) chiaramente come il risultato del prodursi e dell’aggravarsi di uno squilibrio tra sistema rurale e sistema urbano e cioè di una situazione in cui non si registra né un congruente aumento dell’occupazione in settori urbano-industriali, né “una riorganizzazione del settore agricolo tale da tradurre la diminuzione di manodopera in aumento della produttività e dei redditi pro-capite” (Seppilli, 1965c, p. 286). Viceversa, l’esodo dalle montagne non costituisce affatto un indice della modernizzazione stessa. Come denunciava lo stesso Seppilli, alcuni sociologi ed economisti si limitavano, tra anni Cinquanta e Sessanta, a constatare “che il ridursi dell’ammontare numerico relativo alla popolazione rurale rispetto a quella urbana, rappresenta un andamento caratteristico di tutti i Paesi che si muovono nel senso di una crescente industrializzazione, che, di conseguenza, un basso livello di manodopera contadina costituisce la norma di tutte le società fondate su una agricoltura e su una industria tecnologicamente avanzata” (Seppilli, 1965c, p. 285). Questo genere di affermazioni sono ancora una volta da intendersi come il prodotto di un certo regime di storicità fondato sul paradigma di una modernizzazione. Un discorso che si identifica soltanto con i processi di industrializzazione e urbanizzazione e che per lungo tempo ha convinto le popolazioni rurali in genere, e in particolare quelle montane, che l’unica possibilità di avere un futuro si potesse realizzare in altre occupazioni e in altri territori. 35 memoria ethnologica nr. 48 - 49 * iulie - decembrie 2013 ( An XIII ) BIBLIOGRAFIA AGAMBEN G. (2005), Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino (ed. orig. 1995); ALBERA D., CORTI P. (a cura di) (2000), La montagna mediterranea: una fabbrica d’uomini? Mobilità e migrazioni in una prospettiva comparata (secoli XV-XX), Gribaudo, Cavallermaggiore; ALLEGRETTI G. (1987), Marchigiani in Maremma, in S. Anselmi (a cura di), Le Marche: Storia d’Italia Einaudi: le Regioni, Einaudi, Torino; ANTONIETTI A. (a cura di) (1989), La montagna appenninica in età moderna. Risorse economiche e scambi sociali, “Quaderni monografici di Proposte e Ricerche”, Ancona; ARPEA M. 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