memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) SANDRO PIERMATTEI1, ITALIA Cuvinte cheie: nostalgie, comunităţi rurale, deruralizare, istoricitate, relaţii de putere Drame, idile, elegii structurale: registre poetice ale poveştilor de viaţă din Munţii Sibillini, Italia Rezumat În timpul unei cercetări în teren de lungă durată, în căutare de culturi locale practicate în zona protejată a Parcului Naţional Munţii Sibillini, am început să mă interesez de istoriile familiale ale agricultorilor şi păstorilor vârstnici. Amintirile, trezite prin intermediul cercetării etnografice, reflectau un cadru narativ complex, plin de contraste. Povestirile dramatice au relevat faptul că aspectele cele mai aspre ale vieţii şi ale muncii în munţi erau însoţite de rapoarte nostalgice, în cadrul cărora coeziunea şi armonia comunităţii erau puse în prim plan. Luând ca punct de referinţă conceptul de nostalgie structurală definit de Herzfeld, în acest articol realizez o analiză interpretativă a diferitelor tonuri poetice ce reies din naraţiuni, sugerând că acestea sunt modulate în funcţie de diferitele experienţe de viaţă ale actorilor sociali şi sunt în strânsă legătură cu poziţiile lor în contextul relaţiilor de putere. În acest fel, ies la iveală şi naraţiunile elitelor locale. Putem vorbi de versuri elegiace şi paternaliste care, în timpul celebrării valorilor respectului faţă de autoritate şi pentru regulile comunitare invocă, de fapt, o perioadă de dinaintea statului şi un drept primordial şi auto/regulator al întâiului născut (Herzfeld, 1997, p. 22) cu scopul de a legitima inegalităţile şi formele de centralizare a puterii. 1 Università degli Studi di Perugia, Italia, sandro.piermattei@alice.it 6 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) Key words: nostalgia, rural communities, deruralization, historicity, power relationships Dramas, Romances, Structural Elegies: Poetic Registers of Life Histories in Sibillini Mountains, Italy Summary During a long fieldwork in search of ancient local crops in the protected area of the National Park of the Sibillini Mountains, I became interested in the family stories of old farmers and shepherds. The memories, solicited through ethnographic inquiry, mirrored a complex narrative framework, full of contrasts. Dramatic narratives that revealed the harshest aspects of life and work in these mountains, were flanked by nostalgic reports in which cohesion and harmony of the community were exalted. Guided by the concept of structural nostalgia by Herzfeld, in this article I try to carry out an interpretative analysis of the different poetic tones of these narratives, suggesting that they are modulated according to the different life-experiences of the social actors and in relation to their positions in the context of power relations. Thus, even the narratives of local elites emerge. Elegiac and paternalistic lyrics that, while celebrating the values of the respect for authority and for community rules, are actually invoking "an age before the state", a "primordial and self- regulating birthright" (Herzfeld, 1997, p.22) in order to legitimize inequalities and forms of centralization of power. 7 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) Drammi, idilli, elegie strutturali: registri poetici delle narrazioni di vita nei Monti Sibillini, Italia L'antropologo americano Michael Herzfeld sostiene che è sempre auspicabile dubitare dell’esibizione di qualsiasi pretesa di verità e letteralità (2003, p. 170). Difendere, perorare e ostentare l’aderenza del proprio punto di vista alla realtà costituisce, infatti, l’arma retorica più convincente nelle mani di chi voglia precisamente occultare o dissimulare la propria retoricità. Si pone allora un problema di ambiguità epistemologica delle narrative e delle retoriche prodotte dai soggetti. Se è vero che un'etnografia non può evitare di confrontarsi con le rappresentazioni dei propri informatori è altrettanto importante individuare un orientamento interpretativo tale da guidarci nella comprensione del contesto generale che si sta esplorando. Altrimenti, al cospetto del complicato microcosmo di prospettive locali, nell'ambito del quale ogni voce lotta per imporre la propria autorevolezza, si rischia di restare epistemologicamente affabulati o, al contrario, del tutto scettici. Si può allora cercare di applicare due utili correttivi. Da un lato, ci soccorre la conoscenza attenta delle problematiche e dei contesti posti sotto esame: essa ci può garantire una certa autonomia di giudizio rispetto ai punti di vista, spesso inconciliabili, dei diversi soggetti. Dall’altro, si può tentare un’interpretazione che tenga conto dei vissuti e delle motivazioni che spingono i soggetti a produrre certi discorsi nel momento dell'interazione etnografica. Il primo tipo di strategia si fonda solitamente sul tentativo di costruire un confronto e una sintesi tra i risultati di precedenti lavori sul campo, quelli prodotti dalla ricerca storica, dalle statistiche relative ai contesti locali e quelli ricavati attraverso il nostro lavoro etnografico. L'obbiettivo è quello di poter verificare l’affidabilità delle narrazioni dei nostri interlocutori nel ricostruire i passaggi chiave di un mutamento culturale o socio-economico occorso localmente. Tuttavia, nel momento in cui ci si accinge a valutare le posizioni più apertamente politiche, soggettive delle narrazioni, quando i soggetti si sentono chiamati a difendere le proprie posizioni o ad esaltare l'importanza, l'autorevolezza o la significatività sociale dei propri vissuti, si ha la sensazione che ci si debba affidare di più all’interpretazione di poetiche sociali che hanno certamente a che fare con una realtà, ma che presentano anche precise forme di retoricità. Esse spaziano dall'ironia, alla caricatura, alla deformazione iperbolica, fino a raggiungere, talvolta, tonalità di particolare esasperazione drammatica. In altri termini, si tratta di considerare gli aspetti più emotivi delle narrative, si tratta di confrontarsi con il posizionamento politico degli attori sociali nel campo che si sta esplorando e di comprendere come funzionano le poetiche espresse dai soggetti, una volta sollecitate attraverso le nostre domande e l'esplicitazione dei nostri stessi punti di vista rispetto ai temi affrontati durante le nostre conversazioni con loro. Più di dieci anni fa, quando iniziai le mie ricerche sulla biodiversità coltivata in Alta Valnerina e lungo il versante sud-occidentale dei Monti Sibillini2 (una parte della catena montuosa 2 La catena dei Monti Sibillini è di natura calcarea ed è caratterizzata dalla presenza di terreni poveri e rocciosi, spesso interessati da fenomeni sismici e franosi. Oggi, il territorio è soprattutto coperto da boschi, talvolta intervallati da piccoli appezzamenti di terreno, spesso non raggiungibili dalle moderne macchine agricole. Fanno eccezione grandi piani intermontani di origine tettonico-carsica; aree molto fertili, come il Piano Grande di Castelluccio e i piani di Santa Scolastica, Colfiorito e Macereto, dove viene praticata l'agricoltura più moderna e redditizia. A quest'ultima si affiancano forme molto diffuse di orticoltura fa- miliare e attività silvo-pastoriali che rappresentano gli altri principali settori delle attività economiche tradizionali (Desplanques, 1975; Piermattei, 2006, 2008). Il territorio è stato oggetto di diverse pratiche di patrimonializzazione naturalistica e culturale, data la presenza di importanti aree di interesse archeologico, storico-artistico e paesaggistico, nonché di numerose specie animali e vegetali protette a livello nazionale o endemiche per tutelare le quali è stata istituita l'area protetta del Parco Nazionale dei Monti Sibillini. 8 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) dell'Appennino centrale, in Italia), pensai che sarebbe stato utile approfondire le storie familiari e aziendali degli agricoltori con i quali lavoravo. L'obbiettivo era quello di comprendere come certe coltivazioni fossero state conservate, nonostante tante altre fossero state sostituite da varietà più moderne e produttive. Il territorio nel quale ho svolto questi lavori appartiene infatti a un contesto montano sottoposto, a partire dal Secondo dopoguerra, a un costante e inesorabile spopolamento che ha comportato anche estesi fenomeni di semplificazione agroecologica e quindi di erosione della biodiversità, sia spontanea che coltivata (Piermattei, 2012). Per lunghi decenni infatti i fattori di attrazione della popolazione rurale verso altri stili di vita, più moderni e urbani (Seppilli, 1962, 1965a, 1965b), causando l'abbandono delle coltivazioni, specie quelle in alta quota, ha progressivamente ristretto gli spazi delle attività agricole, marginalizzandole economicamente ed ecologicamente. Il paesaggio, per tanti secoli costantemente gestito da popolose comunità rurali, una volta abbandonato, ha mutato aspetto e, sebbene la copertura boschiva abbia preso il sopravvento in molti spazi, è anche aumentato il rischio idrogeologico connesso a una perdita generalizzata di presidio umano sul territorio. Per questo, quando venti anni fa fu istituito dal governo italiano il Parco Nazionale dei Monti Sibillini, sembrava che finalmente si potessero elaborare nuove strategie di valorizzazione del territorio e delle attività economiche agro-silvo- pastorali. Molti pensavano che le istituzioni avrebbero finalmente fermato l'esodo, rivalorizzando il ruolo ecologico e i saperi di agricoltori e pastori, come del resto le retoriche ufficiali e quelle prodotte dalle associazioni ambientaliste locali incoraggiavano a pensare. Tra anni Settanta e Ottanta, infatti, il dibattito politico locale che avrebbe portato all'istituzione dell'area protetta vedeva da un lato uno schieramento di imprenditori ed amministratori interessati a costruire strade, quartieri residenziali e infrastrutture turistiche e, dall'altro, associazioni e residenti che chiedevano un coinvolgimento diretto nelle decisioni che riguardavo la gestione di un territorio che andava protetto dalla costruzione di opere pubbliche spesso del tutto inutili (Nardoni, 1999). La creazione del Parco, nel 1990, coincise con l'emanazione della legislazione quadro nazionale sulle aree protette. Purtroppo il metodo di governo di queste ultime non introdusse grandi novità nei rapporti di potere locale che, semmai, uscirono rafforzati, mentre i nuovi vincoli ambientali, oltre a fermare molti lavori pubblici, hanno anche prodotto l'effetto di aumentare burocrazia, controlli e sanzioni, soprattutto per agricoltori e pastori. Del resto, esaminando gli interventi messi in atto dal Parco, si evince un approccio alla gestione dell'area protetta concentrato soprattutto sulla protezione della natura e ben poco impegnato sul fronte dello sviluppo dell'economia locale. Si parla, per esempio, di ambiziosi progetti di reintroduzione di specie faunistiche estinte da secoli, di promozione del turismo sportivo o naturalistico, ma ben poco di agricoltura locale, di promozione delle produzioni agroalimentari tipiche del territorio, di occupazione giovanile (Piermattei, 2006). È quindi evidente come parlare di agricoltura in questi luoghi non costituisce un argomento politicamente neutro nell'ambito dell'incontro etnografico. Si tratta altresì, specie con gli informatori più anziani, di un argomento che sollecita ricordi, amarezze, disillusioni e, molto spesso, un profondo senso di rabbia e di frustrazione verso le istituzioni dello Stato: dalle amministrazioni locali, fino all'Ente Parco. Atteggiamenti che non hanno esitato a riverberarsi anche sul mio ruolo di studioso dell'agricoltura locale, ovvero di rappresentante di un'altra istituzione statale, quella accademica, spesso ritenuta storicamente complice di quei rapporti di potere e di quelle strategie che hanno portato alla erosione e alla marginalizzazione sociale, politica ed economica di queste comunità. La mia presenza e gli interessi da me manifestati nella conservazione di certe coltivazioni o nella documentazione di pratiche e saperi potevano infatti 9 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) suscitare interesse, aspettative, simpatia, ma talvolta anche critica, ironia, diffidenza, fino ad atteggiamenti di manifesta ostilità. Il lavoro sul campo e lo studio delle storie familiari e aziendali di agricoltori e pastori mi ha pertanto messo di fronte a una irriducibile pluralità di memorie e nostalgie. Una pluralità non facilmente generalizzabile poiché riflette posizioni sociali e politiche, nonché esperienze umane, tra loro molto differenti. In questo caso, affrontare il problema del posizionamento “storico” dell’etnografia è stato un compito che è andato ben oltre la preoccupazione per le eventuali allocronie che essa può produrre nel rappresentare l’“altro osservato”, rispetto al tempo storico dell’osservatore (Fabian, 2000): si è trattato piuttosto di rappresentare la frammentazione e la pluralità dei punti di vista che animano l’esperienza storica di una comunità, e di metterle in relazione sia con quel presente, che di fatto investe di senso le esperienze, le memorie e le nostalgie rappresentate oralmente dai soggetti, sia con i discorsi egemoni che definiscono la modernità. Da tale prospettiva, si potrebbe affermare che è stato necessario impegnarsi in una riflessione sui “regimi di storicità”3 dei diversi attori sociali e politici, non solo locali, con i quali si è lavorato. Tali regimi non si danno mai come entità uniformi, ma risultano, a loro volta, microfisicamente disgregati. Nessun processo storico lascia infatti la stessa traccia su due persone diverse e quindi occorre considerare come questi regimi vengano elaborati a partire da posizioni sociali e politiche che, ancorché in divenire, rispondono a specifici rapporti di dominio o subalternità nel contesto di reti sociali e relazioni di potere non solo locali. Nessun processo storico lascia la stessa traccia sulla stessa persona: ognuno di noi infatti restituisce continuamente regimi differenti della propria storicità che mutano al mutare delle esperienze maturate, delle urgenze esistenziali, delle valutazioni e delle convenienze personali che contano in un dato momento. Il dramma e l'idillio Nell'ambito di questo complicato gioco di prospettive e rappresentazioni, la nozione di nostalgia strutturale di Herzfeld ha rappresentato un utile viatico interpretativo attraverso i particolari regimi di storicità prodotti dagli informatori più anziani. Infatti, attraverso le loro nostalgie si può ravvisare quella che l’antropologo americano definisce come il “desiderio di un’epoca anteriore allo Stato, di un diritto innato e autoregolamentato, che lo Stato invoca continuamente” (Herzfeld, 2003, p. 39). Come per l’angelo della storia descritto da Benjamin, le cui ali, rimaste impigliate nella tempesta della modernità, del progresso, lo spingono inesorabilmente all’indietro, verso il futuro, senza che lui possa “trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto” (Benjamin, 2007, p. 80), anche lo Stato invoca, o finge di invocare, un passato di fatto irrecuperabile poiché immaginario, ideale o, più precisamente, idealizzato. Rispetto a quel tempo intatto ed incontaminato, la storia successiva diventa dunque, fatalmente, un percorso di corruzione, di allontanamento da un’“armonia” primordiale ed originaria. 3 La nozione, proposta recentemente dallo storico francese François Hartog (2007), nasce da una sua riflessione intorno al lavoro Islands of History (The University of Chicago Press, Chicago 1985) dell’antropologo americano Marshall Sahlins e si presenta come uno strumento di riflessione intorno alle relazioni che gruppi, società, ma anche singoli individui, intessono tra il proprio presente, da un lato, e il passato e il futuro, dall’altro. Di essa Hartog dà due definizioni: una ristretta, “nei termini in cui una società tratta il suo passato e ne parla” e una allargata, che indica “la modalità di coscienza di sé di una comunità umana” (2007, p. 49). Applicare la nozione di “regimi di storicità” significa dunque preoccuparsi di svelare le forme dell’es- perienza del tempo, i modi in cui ci si relaziona ad esso. In questo modo essa ci consente di esplorare criticamente le grandi “cronosofie”, o i racconti egemonici del tempo, secondo un approccio critico agli storicismi positivi molto simile a quello inaugurato dal filosofo tedesco Walter Benjamin. 10 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) Durante il lavoro sul campo, questa nostalgia strutturale non veniva prodotta dallo Stato; l’idealizzazione, l’assolutizzazione del passato costituivano gli strumenti con i quali gli anziani costruivano le proprie nostalgie al fine di elaborare la critica di un presente carico di incertezza, preoccupazioni e delusioni. Lo scopo era quello di presentarmi un’immagine ideale della propria comunità, di plasmare una rappresentazione del contesto ambientale della propria giovinezza, da contrapporre a quella del presente e di una storia recente dominati da politiche e discorsi egemoni non più soltanto nazionali, ma addirittura sovranazionali, e caratterizzati dalla vecchiaia, con tutto quello che essa comporta in termini di una progressiva limitazione rispetto alle personali capacità di azione e di intervento sull’ambiente circostante. Tuttavia, l'autorevolezza di queste nostalgie, fondata sul racconto di esperienze e vissuti concreti, relativi al proprio territorio e alle comunità nelle quali queste persone hanno sempre vissuto, non si risolve nella rappresentazione idillica di agresti e armoniose collettività, ma è anche pronta ad ammettere anche le parti non proprio idilliche del passato. Per esempio, quella di Elena, ottantenne di Gualdo (Castelsantangelo sul Nera, MC), si presenta come una storia familiare a tratti drammatica, sebbene tutto sommato positiva rispetto ad altre vicende che ho avuto modo di raccogliere sul campo. Al centro di essa, la prematura scomparsa del marito e la decisione dell'unico figlio della coppia, a soli sedici anni, di interrompere gli studi e di continuare a gestire la piccola azienda agricola di famiglia. In seguito, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, la conversione all’agricoltura biologica e infine la creazione di un piccolo agriturismo, grazie all’allestimento di alcune stanze al secondo piano della casa in cui vivono. Oggi, questa tormentata parabola familiare, nonostante le molteplici difficoltà che ha dovuto affrontare, mi appare come un esempio di quella speranza, di quella ansia di redenzione storica di cui parla Walter Benjamin. Ad Elena, infatti, che pure guarda con una certa nostalgia al passato, specialmente quando parla, commossa, di suo marito, il proprio presente appare come una liberazione e un riscatto rispetto a quello in cui hanno dovuto vivere i propri genitori: Uh, l’agricoltura oggi è più comoda, adesso sì, è ’no spasso… prima era tanto tribolato. Io non ho tribolato eh, no… se metteva quel pezzetto de lenticchia, un pezzetto de grano, non è che andavo a giornata. Invece mamma mia sì! E in tempo de legna, la mattina aveva da partì e mica c’era la motosega. Je davano le corde e poi andavano proprio su quelle macchie ripide, tajavano e poi facevano i fasci […] poi il mangiare era pure poco… beh a qualcuno un pezzetto de formaggio je lo davano pure, sennò je davano ‘l sanguinaccio e un po’ de pancetta e non je davano altro […] Quando erano parecchie le donne a lavorà, pe’ colazione je portavano ‘l pan bagnato, l’acquacotta. Mamma diceva che alle volte te sembrava de non avé mangiato pe’ gnente. Portavano un piattone e poi se erano sette, otto se mettevano lì tutti intorno come le galline a magnà. Elena si riferisce alle fatiche e alle privazioni sopportate dalla madre, che era costretta ad andare a giornata, a tagliare la legna nelle grandi proprietà padronali della montagna o, in qualità di bracciante, durante lo svolgimento dei grandi lavori agricoli estivi4. Oltre a condizioni di lavoro 4 Il padre di Elena faceva il merciaio ambulante di panni e stoffe, un lavoro che lo portava lontano da casa anche per lunghi periodi di tempo, così era la madre a prendersi carico, oltre che della famiglia, dei lavori agricoli o forestali che poteva prestare nelle grandi proprietà come salariata. Una condizione durissima, tipica di molte altre zone montuose e della montagna appenninica, in particolare, come riferiscono recenti studi di Dadà (1999, 2000) per il settore toscano e Arpea (1987) per quello abruzzese. 11 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) molto dure, si dovevano sopportare anche gravosi rapporti di subordinazione che spesso andavano ad incrinare le relazioni sociali tra i lavoratori stessi, costantemente soggetti a pressioni esercitate dai soggetti padronali e dai quadri intermedi delle gerarchie del lavoro agro-silvo-pastorale. La prospettiva di poter un giorno superare la condizione di bracciante o di operaio veniva dunque vista come una vera e propria liberazione. Da queste narrazioni si deducono tutta una serie di situazioni e di trasformazioni del lavoro agricolo che contraddicono quelle rappresentazioni di un paesaggio senza tempo, che oggi caratterizzano le retoriche del marketing turistico-territoriale. A cadere è soprattutto l’idea di una ruralità idillica, pacifica, dai ritmi lenti. Prima della meccanizzazione, i ritmi del lavoro, a parte il lungo periodo invernale di pausa del lavoro agricolo, sembrano essere stati particolarmente frenetici, non solo per chi si trovava in una condizione subordinata, ma anche per coloro i quali possedevano qualche piccolo podere e gestivano qualche altro appezzamento in affitto. Anzitutto, il fatto di doversi spostare continuamente tra l’abitazione in paese e i seminativi, i pascoli e i boschi in montagna, comportava la copertura di distanze, talvolta notevoli, anche più volte al giorno, a piedi o con le bestie da soma (prevalentemente asini e muli). A ciò si aggiungevano anche gli effetti della estrema frammentazione fondiaria, con più appezzamenti, talvolta anche molto distanti fra loro, gestiti da una sola unità familiare. Questi fatti, menzionati da tutti gli agricoltori anziani, si riferiscono alle forme dell’insediamento in montagna, in rapporto alla struttura fondiaria locale. Quest’ultima infatti, caratterizzata dalla presenza di estese proprietà, sia collettive che private, e da numerose e piccolissime proprietà ed appezzamenti in affitto, non incoraggia la diffusione dell’insediamento sparso, ma l’accentramento della popolazione in piccoli, una volta popolatissimi, centri e nuclei abitati. In tale contesto, le risorse umane della famiglia venivano utilizzate a fondo, in regime di autosufficienza, al fine di poter fare a meno di personale avventizio. Così, molti dei miei informatori più anziani mi hanno raccontano che l’iniziazione al lavoro iniziava molto presto, già a partire dai cinque, sei anni di età. Le eccezioni erano veramente poche. Coloro che si potevano permettere di mandare i figli a scuola, lo facevano perché potevano contare su famiglie molto numerose, o perché potevano contare anche su altre attività, osterie o negozi ad esempio, che richiedevano abilità (leggere, scrivere, contare) che venivano insegnate a scuola e potevano tornare utili. Roberto, agricoltore e pastore di Vallinfante (Castelsantangelo sul Nera, MC), mi parla della sua dura iniziazione al lavoro, negli anni Quaranta, a sei anni di età, e mi dice che a nove era già ritenuto in grado di svolgere autonomamente o di contribuire a tutti i lavori agricoli e le operazioni relative alla guardia e alla cura del bestiame. Quando si mieteva il grano, specie negli appezzamenti più alti in montagna, si doveva trasportare tutto verso il piano dove sarebbe stata eseguita la battitura e la pulitura, con l’ausilio del vento, particolarmente presente in queste conche intermontane. Quindi si procedeva a trasportare a casa il fieno e il raccolto, operazione che gli agricoltori del versante maceratese svolgevano preferibilmente di notte, col fresco, per risparmiare le proprie forze e quelle dell’animale che doveva sopportare la soma. L’estate, Roberto, dopo aver mietuto o battuto il grano tutto il giorno, veniva incaricato di riportare il fieno o il prodotto già pulito a valle, lungo l’impervia e ripida mulattiera che dal Pian Perduto attraversa la valle di San Lorenzo e il Monte Prata, per giungere a Vallinfante. La preoccupazione era quella di limitare al massimo le perdite di quantità, a volte rilevanti, di prodotto durante il trasporto, cosa mai facile per via dei capricci e delle cadute dell’animale o solo per semplice distrazione. Le perdite inoltre potevano essere dovute anche a mille altri accidenti, come un precario stato di salute o anche solamente la stanchezza di chi aveva già lavorato da ore sotto il sole e ciò rendeva il compito ancora più delicato, esponendo il ragazzo alle 12 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) severe punizioni paterne. Si doveva stare molto attenti anche alle condizioni climatiche, che sono sempre critiche e variabili in montagna e che potevano mettere a serio rischio tutta la delicatissima fase della battitura, della pulitura e del trasporto e quindi si doveva svolgere queste operazioni in fretta, sempre correndo, come dice Roberto, ma anche con precisione, al fine di minimizzare quanto più possibile le perdite di prodotto. Elena e Roberto nel raccontare le loro tribolazioni e quelle dei propri genitori mi ricordano dunque, non senza una certa enfasi “eroica”, che la vita su queste montagne non era affatto facile. In questi casi la modernizzazione delle condizioni di lavoro viene rappresenta come un processo positivo, che davvero rappresenta il superamento di una condizione difficile, perfino dal punto di vista del proprio corpo, provato e segnato dagli eventi e dagli elementi di un contesto ambientale ostile. Ma allora come si spiega la nostalgia per un passato che viene definito e raccontato in termini tanto duri? Cosa si cela dietro alcune affermazioni come se stava mejo prima, espressioni assai ricorrenti nelle narrative della generazione degli attuali sessantenni-ottantenni? A cosa si riferiscono le nostalgie che rappresentano un passato idillico e armonioso? La propria gioventù, una certa forma di vita sociale, un determinato paesaggio? Se la modernizzazione ha significato un generale miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, come mai queste persone evocano continuamente un passato che, seppure difficile da vivere, viene ritenuto sostanzialmente migliore rispetto al proprio attuale presente? Si tratta allora di riflettere sulle complesse sfumature emotive di queste narrative. A volte, come si è visto, si fanno drammatiche ed epiche al tempo stesso: resoconti di infanzie deprivate dalla fatica, dalle malattie, dalla fame e perfino da maltrattamenti familiari, racconti di una vita sociale costantemente segnata da clientelismi e nepotismi, con relative forme di controllo, di limitazione delle libertà individuali, di subalternità e disuguaglianza. Tuttavia, a queste poetiche sociali dal registro epico e tragico vengono combinate poetiche dal registro più rassicurante, disteso che contribuiscono a una lettura critica del presente. Sono queste a rivelare uno degli aspetti che le nostalgie degli anziani condividono con i caratteri della nostalgia strutturale di Herzfeld, ossia il riferimento ad un passato rappresentato in termini di armonia sociale. Per l’antropologo americano, una delle caratteristiche pregnanti della nostalgia strutturale è proprio la retorica di una reciprocità primigenia, oggi corrotta; quest’epoca idealizzata sarebbe caratterizzata da un’armonia sociale dove domina il principio di reciprocità fra gli uomini. In effetti, nelle narrative dei miei informatori anziani, questa armonia fra gli uomini si estende fino a comprendere l’armonia fra questi e la natura, in quanto all’odierno caos paesaggistico e sociale si contrapporrebbe il vecchio paesaggio curato dall’uomo che corrispondeva ad un’organizzazione sociale equilibrata, rigorosa, ordinata e coerente (Piermattei, 2012). Sembra quasi che queste rappresentazioni più idilliche della comunità e del suo paesaggio non intendano raffigurare letteralmente il passato, quanto piuttosto un passato funzionale ad una critica del presente: una rappresentazione attenta degli effetti della modernizzazione del lavoro agricolo nonché dei processi di omologazione culturale e di disgregazione sociale che si sono imposti a partire dal Secondo dopoguerra. Lo stesso Herzfeld, del resto, parla della nostalgia strutturale più come uno strumento che un fine o una meta reali da raggiungere. È un’ucronia (che spesso corrisponde anche ad un’utopia della natura o del paesaggio perfetto) che ha senso solo in un presente che viene ritenuto mediocre e deteriorato rispetto alle attese che in passato venivano prodotte rispetto ad esso. Questa immagine “incontaminata” del passato non viene collocata dagli anziani in un indeterminato momento “prima della storia”, ma in un preciso momento storico, ovvero quello dell’infanzia e dell’adolescenza, quello anteriore alla Seconda guerra mondiale: 13 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) quasi che la cosiddetta Grande storia non si fosse ancora fatta sentire, sia attraverso la tragedia della guerra, che con la successiva crisi economica, la ricostruzione e, infine, l’esodo. Dopo la guerra, con l’avvento dell’età adulta, della maturità e quindi di una coscienza sociale più consapevole, la rottura dell’“armonia” originaria che reggeva queste comunità appare prodursi gradualmente come effetto di un’azione verticale dello Stato. Esso viene dunque riconosciuto e indicato come l’agente perturbatore, soprattutto quando, descrivendo gli effetti dello spopolamento in montagna, questi agricoltori ne denunciano le insufficienze nelle politiche dei redditi agricoli, le negligenze nel fermare l’esodo, nonché la recente istituzione del Parco Nazionale dei Monti Sibillini con i suoi vincoli e il suo apparato burocratico. Un tipo di azione che viene condensata nell’immagine di uno Stato che ha letteralmente espulso le persone, allo scopo di difendere la natura selvaggia e gli animali che la abitano e di trasformare questi territori in un luogo di ricreazione per turisti. Occorre, a questo punto, fare molta attenzione, poiché se in questa rappresentazione fortemente negativa, stereotipata e pessimistica dell’azione dello Stato non mancano alcuni elementi di riflessione da considerare seriamente, sono altrettanto evidenti distorsioni di una realtà storica e sociale che è ben più complessa da valutare. Solo affrontando seriamente questa complessità, ossia considerando attentamente sia le motivazioni individuali che i condizionamenti ambientali nella formulazione delle scelte dei soggetti, è possibile spiegare le forme locali dei processi di deruralizzazione, esodo e modernizzazione e quindi riconsiderare anche le nostalgie in quanto strumento di critica culturale dei processi, fortemente contraddittori e non-linerari, della modernizzazione in montagna. Elegie strutturali: la perdita della comunità e l'eroismo collettivo La nostalgia agisce come un processo selettivo della memoria, che tende a produrre immagini abbaglianti del passato, talmente abbaglianti da mettere in ombra altri aspetti della propria storia e di quella della comunità in cui si è vissuti. In particolare, ci si riferisce a una dimensione del lavoro caratterizzata, come si è visto, da fatica, indigenza e incertezza. Si tratta del lato oscuro della propria storia, dominato dalla negazione della speranza e della redenzione, incorporato indelebilmente nelle cicatrici, nelle invalidità, perfino nelle mutilazioni che segnano una pelle ispessita e imbrunita dal sole, dal vento, dal freddo. È proprio questa incorporazione negativa della storia che sembra sollecitare la nostalgia verso una corporeità ancora giovane, intatta. Walter Benjamin l’avrebbe forse definita l’immagine del passato colta di sfuggita nel momento del pericolo, ovvero solo un momento prima che la storia la violi e la trasfiguri, in questo caso attraverso la fatica del lavoro, l’azione degli elementi e del particolare contesto sociale ed esistenziale nel quale ci si trova a vivere. Le nostalgie degli anziani non si limitano però ad accogliere solo l’immagine di una corporeità giovane, intatta, ma la inseriscono nel contesto di una socialità allargata e solidale e di un paesaggio ricco, vario, ben curato che nelle narrazioni assomiglia quasi ad un Eden primordiale e sereno, contrapposto al paesaggio attuale, definito selvaggio, malato, inospitale, desolato (Piermattei, 2012). Prima le montagne erano piene di gente, non ci si sentiva mai soli, non ci si sentiva in pericolo. In queste tre affermazioni si può sintetizzare la nostalgia verso una dimensione comunitaria della vita sociale che si scontra con la percezione di un presente caratterizzato dall’insicurezza di una vita condotta in paesi ormai abbandonati. In essi molti di questi anziani vivono soli, spesso senza 14 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) alcuna assistenza da parte dei figli, specie se emigrati altrove, con un vicinato esile, eroso da anni di spopolamento. In questi anziani l’insicurezza e la solitudine tendono allora a tradursi in paura e diffidenza. Per Elena, tuttavia, la paura non è solo una condizione dettata dalla posizione appartata della propria abitazione, ma si ricollega alla perdita di una dimensione corale del lavoro che era di grande conforto: era ‘na bellezza, annavi su, se parla de cinquant’anni fa, andavi sul Piano e la gente… tutti il pezzetto suo… facevano ‘l fieno, era come quando se annava a ‘na festa. Mo te dico ‘na cosa bella, che adesso non esiste più, allora da qui[da Gualdo – Castelsantangelo – MC], da qui annavono proprio su, dove c’era la terra che ce se annava a seminà ‘l grano, allora partivano, annavano a mietere a mano, ritornavano a sera, diciamo all’inbruni’ e sentivi questi che ritornavano giù insieme, che cantavano, tutti stornelli, ma delle cose bellissime. Allora noi ragazzini annavamo incontro pe’ sentì questi qua […] Adesso a te te mette paura perché spesso sei da solo, co’ uno che vedi lontano, al massimo due persone che stanno a lavorà, eh… e te stai lì col trattore che po’ sempre succede qualche cosa. E allora io sto sempre in pensiero. La preoccupazione di Elena è soprattutto per il figlio Marzio che da solo parte col suo trattore e torna quando è sera. Una preoccupazione che probabilmente le desta il doloroso ricordo del marito, scomparso prematuramente proprio a causa di un incidente mentre conduceva il trattore. Una preoccupazione che tuttavia nutre anche per se stessa, specie quando resta a casa, anche se cerca di muoversi il più possibile per evitare di fare qualche brutto incontro. La sua casa è stata visitata dai ladri ben due volte in tre anni. Il suo rifugio diventano allora i vicini del caseggiato oltre la strada: Gualdo, il suo paese natale, dove conserva ancora la sua casa da ragazza e alcune vecchie amicizie con le quali spesso passa la giornata in compagnia. Questa socialità, della quale gli agricoltori anziani provano nostalgia, è dunque importante, anzitutto, dal punto di vista psicologico come istanza di sicurezza, bisogno di reciproca assistenza. Tuttavia essa è rilevante anche dal punto di vista dell’accettazione della propria condizione sociale. Lavorare insieme agli altri significa infatti condivisione, sia nell’ambito del contesto familiare che in quello comunitario: se la famiglia è rappresentata come la base sulla quale costruire la fiducia nel futuro e un saldo, duraturo legame col territorio, la comunità, per i miei informatori anziani, è, a sua volta, il collante capace di tenere insieme la famiglia e favorirne la permanenza sul territorio. Se la famiglia si disgrega, ciò è l’effetto di una disintegrazione che si produce, anzitutto, sul terreno della comunità. Franca e Pietro di Villa Sant'Antonio (Visso, MC) lo affermano chiaramente, quando parlano della vergogna provata dalla figlia che, negli anni Ottanta, si sentiva umiliata nell’essere l’unica ragazza rimasta in paese a lavorare in campagna; in seguito troverà lavoro in una fabbrica locale, poi verrà assunta come impiegata presso le poste. Condividere la stessa condizione, lo stesso lavoro, sembra qui giocare una doppia funzione: da un lato, alimentare un certo conformismo socio-culturale rispetto ad uno specifico stile di vita, dall’altro, alleggerire la fatica del lavoro, creando un’atmosfera che viene sempre definita “di festa”, poiché condita da chiacchiere, pettegolezzi, sfottò, scherzi, canti, racconti, balli e perfino giochi che si facevano per passare il tempo. Come ricorda Caterina F. di Villa Sant’Antonio: così eravamo tutti intorno a ‘sto gran pilone de granturco, se sfogliava… poi dopo se doveva legà, se doveva fà li mazzi e me ricordo che ogni tanto se trovava qualche tutolo rosso. Su una sfogliata, de una sera su un terreno potevi trovà che ne so uno, due ... e se faceva penitenza chi lo trovava… 15 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) eh, sì. Era ‘na cosa anche pe’ stà insieme, co’ tutti ‘sti ragazzi giovani. Dopo mamma portava qualche cosa de dolce e se faceva festa anche in questo modo. Se ballava anche, c’era gente che sonava, se cantava tutti insieme, se scherzava, era ‘na bella cosa insomma che te faceva dimentica’ che stavi a lavorà. Oggi questo tipo di convivialità, di condivisione, continua Caterina, non c’è più. Le cause di questo cambiamento sono, anzitutto, di ordine tecnico, prima ancora che demografico. La meccanizzazione del lavoro, con l’avvento di macchine come le mietitrebbie, che velocizzano e accorpano in un’unica lavorazione, quelle che prima erano diverse fasi del lavoro agricolo, sembrano aver provocato la perdita di una dimensione collettiva, direi corale, del lavoro. Con la mietitura manuale e la trebbiatura svolta successivamente, sempre a mano o con l’ausilio della forza animale o dei macchinari, si trattava infatti di operazioni che bisognava svolgere collettivamente. Da quando invece sono state introdotte le macchine mietitrebbia, l’imprenditore agricolo si affida di solito a un contoterzista, spesso esterno alle comunità locali, che, a volte nello spazio di poche ore, esegue tutto il lavoro, servendosi di pochi operai, spesso specializzati, nella conduzione di queste macchine, sofisticate e costose. Solo nel Piano Grande di Castelluccio e nel Pian Perduto, le coltivazioni di lenticchia vengono ancora oggi lavorate mietendo a mano5 e trebbiando con macchinari, più o meno moderni, una pratica imposta dal fatto che queste piante devono essiccarsi prima di essere trebbiate6. Accanto a queste determinanti tecnologiche dell’attuale modello di socialità disgregata che viene descritto dagli anziani, si affiancano però anche quelle di ordine culturale. Infatti, se l’imitazione e il conformismo giocano un ruolo fondamentale nella condivisione e nell’accettazione della propria condizione sociale, essi risultano altrettanto decisivi nel configurare l’esodo o la ricerca di occupazioni alternative al lavoro agricolo. Tutto infatti sembra avvenire come in una reazione a catena, che si dispiega a partire dai primi che operano tali scelte e che vanno così a costituire un esempio per gli altri, ma spesso anche un’appoggio, una sorta di testa di ponte al fine di individuare nuove opportunità lavorative. Rispetto a queste dinamiche conformiste, gli anziani parlano di nostalgie di fare altro che faticare nei campi, “nostalgie” che ovviamente non si riferiscono a qualcosa che si è perduto, ma a qualcosa che si potrebbe acquisire, ovvero un nuovo stile di vita, che oggi, per la attuale generazione dei giovani locali, significa una ulteriore disgregazione dei rapporti interpersonali. Il lavoro infatti si individualizza, spesso ognuno fa un lavoro che difficilmente è simile a quello di un altro e ciò comporta che anche quei pochi giovani rimasti difficilmente si frequentino e condividano una coscienza sociale della realtà locale, capace di elaborare progettualità nuove e condivise e di rappresentarle presso il comune o l’Ente Parco. Nicola, settant’anni, marito di Caterina, titolare insieme alla moglie di un alimentari-bar, che prima era osteria-emporio, mette chiaramente in relazione l’avvento della televisione, sia con il desiderio di nuovi stili di vita, che con l’individualismo e l’aumentato isolamento delle famiglie, in altri termini, con la disgregazione del tessuto comunitario: la televisione per me ha rovinato tutto, ha diviso tutte le famiglie su questi piccoli paesi, in questi piccoli paesi ha rovinato tutto perché prima uscivano tutti. Quando abbiamo aperto qui il bar nel 5 Oggi partecipano alla mietitura, oltre a una piccola quota di manodopera avventizia, per lo più immigrati dai Balcani e dall’est europeo, amici e parenti degli imprenditori, soprattutto gli “emigrati” in Lazio e nella Maremma che colgono l’occasione per visitare qualcuno, fare una vacanza diversa o lavorare in cambio di quote di prodotto o di un modesto compenso in denaro. 6 Solo i soci della Cooperativa della Lenticchia di Castelluccio si sono dotati di mietitrebbia, introducendo così anche alcuni cam- biamenti nel modo di disporre le piante mietute. Esse infatti, come richiede l’impiego di queste macchine, vengono disposte a file ordinate, invece che a piccoli mucchi, come accade nel metodo “tradizionale”. 16 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) ‘55, la sera se dovevono sbriga’ a usci’ perché dopo non trovavano più posto dove mettese. Dopo cominciò a arrivà la televisione al circolo ricreativo là, dopo cominciò a compralla uno, poi ‘n altro... e poi è finito tutto quanto, ha diviso proprio… le famiglie non escono più, invece prima se raccoglievano, se sapeva tutto dell’altri […] ‘na volta, tu considera che se se litigava do’ scappavi, pe’ forza dovevi risolve subito no. Oggi invece col fatto che se sta ognuno a casa sua, se litighi co’ qualcuno, puoi sceje de non vedello più. ‘Na volta invece non era possibile, perché te lo rivedevi subito, ‘l giorno appresso. Lo stare insieme non significava armonia assoluta. Significava condivisione, ma anche un controllo sociale più attento e stringente; un’intersoggettività certamente più intensa, ma per certi versi anche opprimente. Forse molti decidono di andarsene proprio da un genere di ambiente sociale, nel quale di fatto è impossibile potersi isolare, nel quale è d’obbligo dover costantemente mediare e negoziare le proprie esigenze, le proprie opinioni, le proprie istanze. Perfino le famiglie che stavano bene, quelle che avevano le tenute fuori, che avevano le bestie in Maremma o che semplicemente potevano contare su qualche altra attività commerciale o sull’esercizio del potere politico, non si isolavano, ma conducevano la stessa vita sociale di tutti. Infatti, in un contesto dove la solidarietà e la reciprocità tra famiglie, lungi dall’essere dettata da un qualche spirito volontario e altruistico, costituiva una necessità, una importante risorsa ai fini della conduzione dei lavori agricoli, diventava essenziale mantenere buoni rapporti con il proprio vicinato e con il proprio gruppo parentale. Inoltre, soprattutto per le famiglie più benestanti, quelle che dispongono di maggiori risorse e patrimoni, la gestione del proprio prestigio e del consenso, della collaborazione di una comunità coesa e pacificata, garantiscono una disponibilità costante di manodopera, ma soprattutto la qualità delle prestazioni erogate e il rispetto di regole comuni nella gestione delle risorse ambientali, attraverso pratiche di reciproca sorveglianza. Condivisione e reciprocità, da questo punto di vista, consentono dunque l’esercizio di forme di controllo, anche politico, più efficaci. Ecco che allora alle poetiche idilliche che celebrano la condivisione del lavoro agricolo, l’aria di festa che si respirava nei campi e sulle aie, si affianca il controcanto elegiaco, quasi marziale, del controllo sociale, della disciplina, del rispetto dei rapporti di potere costituiti. L’idillio è infatti funzionale a rappresentare nostalgicamente una mitica serenità agreste, che viene contrapposta all’insicurezza, a una certa inquietudine contemporanea, dovuta all’abbandono e alla solitudine. È una forma di poetica sociale che serve agli anziani anche per cercare di rimuovere, o quanto meno sfumare, quegli aspetti drammatici della propria storia verso i quali si nutrono sentimenti di disagio, vergogna e inadeguatezza. Ma le poetiche che sostengono la nostalgia strutturale verso un passato idealizzato e socialmente armonioso, cambiano tonalità a seconda delle posizioni sociali e dei vissuti dei soggetti e possono prodursi in “canti” dal registro differente. E allora l’elegia7, col suo tono alto, morale e severo, può contribuire a mettere in secondo piano, fino ad occultarle, le effettive disuguagliane sociali e le concrete asimmetrie che si registrano nell’ambito dei rapporti di potere, in nome di un interesse comune, di un “amor di 7 L’elegia nasce in Grecia tra il VII e il V sec. a.c. insieme ad altre forme della poesia lirica come il giambo e la melica. Il ter- mine è di origine asiatica e indica sia il suono del flauto, strumento con il quale venivano solitamente accompagnati questi componimenti, che il distico di cui erano formati (due esametri di cui il secondo, detto impropriamente pentametro, con du- plice catalessi). In origine si trattava probabilmente di poesia funebre, dal tono meditativo e malinconico (Cataudella, 1967). Tuttavia lo stesso tipo di componimento poteva essere usato anche per funzioni poetiche e contenuti molto diversi: dall’im- pegno civile e patriottico con toni esortativi e moraleggianti (poesia gnomica), alla critica sociale e politica, ai temi amorosi ed esistenziali (Albini et al., 1982). 17 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) patria”, rispetto al quale non c’è, almeno apparentemente, spazio per gesta individuali, quanto piuttosto per azioni collettive condivise. L’elegia, del resto, sembra avere sempre a che fare con una perdita, sembra essere la forma poetica per eccellenza di sentimenti quali la malinconia e la nostalgia, adatta sia ad esprimerli a partire dalla sfera privata dell’esperienza del poeta, che da quella pubblica e collettiva. Se nel caso delle liriche di contenuto più personale e meditativo si tratta di compiangere la perdita di una persona cara, di un amore o della propria giovinezza, come accade nella poesia dell’ateniese Mimnermo8, in quelle di impegno civile e patriottico, si tratta piuttosto della perdita di certe virtù civili smarrite a seguito di un conflitto, di qualche dominazione straniera o di uno stato di disordine o di corruzione politica e morale. Il caso delle narrative prodotte da Orazio di Castelsantangelo sul Nera (MC), ottant’anni, imprenditore agricolo e personalità politica locale coinvolta per lungo tempo nell’amministrazione del proprio comune di residenza, è, a tale proposito, esemplare nell’illustrare questa particolare forma di poetica sociale. Orazio si trova a crescere in una famiglia particolarmente agiata che dispone di terreni e di un’osteria, riceve una buona istruzione primaria, che negli anni mette a frutto nell’ambito del contesto lavorativo familiare, e poi entra nell’esercito proprio durante il periodo della guerra. Una lunga esperienza, quest’ultima, che gli consente di fare una rapida carriera come sottoufficiale di cavalleria (le sue competenze in merito alla gestione di cavalli e altri animali risultano infatti decisive) e di conoscere molti ufficiali, soprattutto a Roma, dove viene distaccato quasi alla fine della guerra e dove si trova già una parte della sua famiglia di origine. Molti di questi ufficiali, in seguito bene inseriti come funzionari o in qualità di esponenti politici nell’ambito della vita politica della Capitale, sono quelli che nell’immediato Dopoguerra gli offrono di ricoprire incarichi amministrativi, che Orazio però decide, anche se a malincuore, di rifiutare a seguito delle pressioni dei genitori che lo richiamano ai suoi doveri di primogenito maschio di una famiglia che, a quei tempi, è ancora piuttosto numerosa. Queste conoscenze, tuttavia, costituiranno per Orazio un importante capitale umano e politico da mettere a frutto negli anni più impegnativi della politica. Tornato a casa, il reddito prodotto dall’osteria di famiglia permette ad Orazio di investire capitale sia per espandere gradualmente il patrimonio fondiario dell’azienda di famiglia, che per acquistare bestie e nuove macchine agricole (in particolare, motofalciatrici e trattori). Tutto ciò è servito moltissimo ad espandere l’attività dell’azienda di famiglia, soprattutto prestando il lavoro di queste macchine agli altri agricoltori ed imprenditori che ne sono sprovvisti, e quindi a potenziare altri settori di attività, come la stazione di monta taurina creata dal padre alla fine degli anni Venti; una stazione, in grado di servire, a quei tempi, tutto il ricco bacino d’utenza della zona di Castelluccio, Castelsantangelo, Visso ed Ussita. Questa febbrile attività dà modo ad Orazio di capitalizzare, oltre al denaro, risorse umane e consenso politico, sia attraverso il prestigio sociale acquisito come modernizzatore e contoterzista, sia attraverso un capillare controllo economico delle persone, realizzato attraverso un’attenta gestione dei debiti di queste ultime, accumulati presso l’osteria, la stazione taurina o nel contesto delle pratiche di scambio delle prestazioni di lavoro. Questo capitale sociale e politico a disposizione porta Orazio a ricoprire numerose cariche di rappresentanza politica a livello locale: consigliere dell’associazione allevatori della provincia di Macerata, sindaco e vice sindaco democristiano del proprio comune per alcune legislature, presidente locale della Coldiretti, nonché gestore della relativa cassa mutua di questa associazione di categoria democristiana che nel 8 Mimnermo (VII sec. a.c.) è autore soprattutto di elegie autobiografiche. È il primo autore conosciuto che tratta il tema della giovinezza che passa, delle nostalgie legate a una vecchiaia sentita come triste condizione che sembra pesargli in modo parti- colare: “vecchiaia vuol dire pensieri che rodono, indifferenza alla luce del sole, disprezzo da parte delle donne. Al limite, dissesti familiari, povertà, mancanza di rispetto sono prospettati come conseguenza, e mali tipici, degli anni tardi.” (Albini et al., 1982, p. 50). 18 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) Dopoguerra era praticamente il solo sindacato in Italia ad occuparsi di agricoltura e allevamento9. Una simile concentrazione di poteri attorno ad una sola persona ci mostra uno degli aspetti di una certa struttura della socialità descritta e storicamente vissuta e condivisa dagli anziani: un contesto sociale affollato, ma non caotico, un contesto disciplinato e coeso, poiché retto su forme diffuse di reciproco controllo sociale. A tale proposito mi vengono in mente le parole di Zygmunt Bauman, che nel suo saggio Voglia di comunità (2001), parla del dilemma tra libertà e sicurezza. Secondo il sociologo polacco, ogni sistema sociale sarebbe fortemente combattuto al suo interno tra queste due istanze, in quanto se la libertà impone di sacrificare un po’ di sicurezza sociale, viceversa garantire sicurezza impone una limitazione delle libertà individuali. Siccome il bisogno di sicurezza è attualmente molto forte tra questi anziani, non stupisce allora la nostalgia verso una socialità meno libera forse, ma più controllata e dunque ritenuta più sicura. Del resto, nell’ambito delle narrazioni la libertà raramente viene rappresentata come libertà da certi vincoli familiari e sociali, semmai vi è una critica serrata di queste libertà come forze disgreganti la famiglia e la comunità. Eppure si ha anche l’impressione che gli anziani descrivano un mondo dove il controllo sociale fosse a volte molto pesante, un mondo nel quale, specie chi aveva limitate possibilità economiche, soffriva di più anche la mancanza di una vera sfera privata, di autonomia e di una certa libertà di movimento e di iniziativa. Di queste libertà invece godevano ampiamente coloro i quali potevano permetterselo, a partire da posizioni economiche e sociali di prestigio, potere, influenza. Una libertà che ad esempio consentiva anche di innovare, di aprirsi a stimoli nuovi. Orazio, infatti, in quanto rappresentante esemplare di una modernizzazione positiva e progressiva, racconta orgogliosamente questa libertà di poter sperimentare, rispetto alla quale i propri compaesani appaiono spesso, anche in termini poco edificanti, gente rozza, ignorante e scettica, incapace di valutare i vantaggi di certe novità tecnologiche. Orazio, da questo punto di vista, sostiene quello stereotipo del montanaro chiuso e refrattario ad ogni cambiamento, e che quindi va paternamente e pazientemente educato e guidato, che è in grado di legittimare rapporti di potere e subalternità giocati sul piano economico, politico e socio-culturale. Tanti sono infatti i racconti che mi fa dei curiosi commenti di cui erano oggetto le innovazioni da lui introdotte, come ad esempio, quello relativo a una persona, che, osservando per la prima volta una motofalciatrice, affermò che per le bestie sarebbe stata dura trainare tutto quel pesante macchinario. Questa gente, secondo Orazio, si sarebbe dunque limitata ad osservare e ad imitare, quando possibile, il suo esempio, le sue strategie imprenditoriali. In un contesto nel quale la libertà materiale e l’affrancamento dal bisogno rappresentano le uniche forme di libertà che consentono anche una certa emancipazione sociale, il controllo, la sicurezza, l’ordine sembrano funzionare come un indispensabile freno alle violente pulsioni indotte dalla necessità e quindi come garanzia di un disciplinato, equilibrato funzionamento dell’organismo socio-ambientale. Un po’ al contrario di quanto accade per gli Tsembaga descritti da Rappaport (1968), presso i quali, rispetto al caos prodotto dall’allevamento libero, il rituale kaiko, con la sua grande mattanza di maiali, servirebbe a sancire un nuovo ordine sociale per gli uomini e materiale per le cose, qui l’equilibrio non è parte di un ciclo che prevede anche uno stato, di fatto semi- permanente, di disequilibrio. Nel nostro caso, viene rappresentato un equilibrio come stato 9 Fu infatti fondata da Paolo Bonomi il 30 ottobre 1944 da quella che prima era la Federazione Coltivatori Diretti, che nel ven- tennio fascista costituiva una parte della Confederazione dell’Agricoltura. Grazie alle eccellenti capacità politico-organizzative di Bonomi, la Coldiretti diventerà, già durante la fine della guerra, l’unica organizzazione sindacale di riferimento del mondo agricolo italiano. Un elemento decisivo per costruire il consenso attorno al partito della Democrazia Cristiana, in un momento in cui la popolazione rurale era ancora maggioritaria in Italia e veniva contesa tra la DC e le altre grandi forze politiche an- tifasciste, in particolare comunisti e socialisti. 19 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) necessario delle cose, come “naturale” risultato di un affollamento di famiglie sul territorio che vivono del proprio ambiente circostante e che quindi lo tengono, costantemente e capillarmente, d’occhio. Rispetto a questa situazione solo chi può, a sua volta, controllare le persone e permettersi libertà di movimento e di iniziativa sul territorio, può sperare di essere più autonomo degli altri dai vincoli dell’organizzazione collettiva e dettare le regole agli altri. I racconti sulle famiglie più in vista del territorio, sui signori locali, sono particolarmente significativi al riguardo. Per i soggetti più deboli, come ad esempio i braccianti, o coloro i quali hanno un contratto d’affitto, basta contrarre un piccolo debito o ricevere un modesto favore per perdere autonomia e indipendenza. Si tratta di forme molto elementari di controllo sociale e materiale, ma tanto più efficaci in un contesto ambientale come questo, difficile per condizioni pedologiche, nonché climaticamente imprevedibile e quindi sempre incerto sul piano reddituale. Per tutti questi motivi, imprenditori come Orazio criticano il caos sociale e paesaggistico odierno, imputandolo anzitutto allo spopolamento. Per coloro i quali hanno basato, per molti anni, la propria prosperità su una grande capacità di manovra e di iniziativa a livello materiale, sociale e politico, la mancanza del capitale di risorse umane su cui essa si fondava costituisce in effetti la fine di un mondo. In questo mondo parole e principi morali come spirito di sacrificio, collaborazione, reciprocità, condivisione appaiono funzionali alla riproduzione e al mantenimento di forme di disuguaglianza economica, sudditanza politica e controllo sociale. Oggi invece lo spopolamento, erodendo il corpo elettorale locale, ha segnato, nel contesto dei meccanismi democratici di rappresentanza, la fine della rilevanza politica del mondo agricolo montano. È finito così tutto un metodo di fare la politica locale e di costruire consenso che costituiva il vero punto di forza delle élites locali. Anche le rappresentanze sindacali del mondo agricolo diventano localmente meno rilevanti dal punto di vista politico e finiscono per abbandonare il territorio a se stesso. Inoltre, le politiche agricole ed infrastrutturali, decentrate sulle regioni, hanno l’effetto di un ulteriore depotenziamento di queste piccole realtà, che invece prima potevano contare su contatti politici diretti, ovviamente di tipo clientelare, con il governo nazionale. Ma lo spopolamento ha significato soprattutto l’erosione del capitale umano sul quale si fondavano i rapporti di potere locali, così come la possibilità di quel capillare controllo sociale ed ambientale che esisteva quando tutte le numerose famiglie del territorio vivevano di agricoltura, di montagna. Viene così a mancare il coordinamento tra agricoltori, tra imprenditori, ognuno tende a regolarsi autonomamente non rispettando più le regole comuni e l’ambiente montano diventa come una grande “frontiera” da conquistare e sfruttare a proprio piacimento. Orazio mette in relazione questa situazione con una politica comunale che oggi appare più impersonale, non più fondata sul naturale collegamento che esisteva tra amministratore e amministrato, in quanto entrambi si trovavano a lavorare, giorno dopo giorno, a stretto contatto: ma l’amministratore deve stà a contatto col popolo e io lavoravo in campagna e ce stavo in contatto col popolo e me venivano a seccare mentre stavo a lavorà, non c’era quella distanza de adesso… tu chiedi e avrai, se se po’. A me me incontravano sulla strada, me incontravano sul campo, me incontravano dappertutto e poi io andavo a vedere, proprio così co’ ‘l’occhi mia, annavo su, guardavo la montagna, guardavo le fonti, guardavo l’opere se non stavano a posto, andavo a piedi… eh, allora camminavo, camminavo tanto. […] E poi non c’è più come posso dire quella forza de disciplina a dire… una volta il sindaco era il sindaco, guai se sentivi una persona che parlava male, lo chiamavi “Tu che c’hai? Perché dici questo?” oggi non esiste più. 20 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) Lo spartano Tirteo (VII a.c.) si distinse per componimenti di ispirazione civile, la cosiddetta ευνοµία (“buon governo”), fondati sul concetto di un eroismo collettivo, su un’“etica della comu- nità” (Albini et al., 1982, p. 49) come incitamento indirizzato ai propri concittadini al fine di adem- piere pienamente al proprio dovere. Mi sento di dire che, in questo senso, anche la poetica comunitaria di Orazio tende a un tale tipo di incitamento. La descrizione della sua attività politica paternalista, tutta tesa a consigliare e sostenere gli altri per il bene comune sembra andare proprio in questa direzione. Si tratta di un apparato retorico che quanto meno cerca di sublimare l'eroismo individuale del politico-imprenditore, riportando la celebrazione delle proprie gesta e capacità per- sonali nell'alveo di una ragione etico-comunitaria. Un po' come avvenne nella lirica greca dove, nonostante la comune matrice eroico-agonale dell’agire umano, la virtù di cui parla Tirteo presenta premesse storiche molto diverse da quella omerica. Se questa, infatti, “ha una sua ragione essen- zialmente individualistica, nasce dal sentimento dell’onore e dal desiderio di gloria”, la prima è rad- icata nella “monolitica società spartana che imponeva la totale dedizione del singolo all’interesse della comunità” (Perrotta, Gentili, 1980, p. 11). Da tale prospettiva, dunque, la poetica dell'elegia sembra contrapporsi nettamente a quella dell’epica sul piano del modello di eroismo che propone: collettivo, l’uno, in esso sembrano non avere più spazio gesta solitarie10, individuale, aristocratico e individualista, l’altro. È allora in questo ampio e complesso orizzonte lirico che le poetiche sociali degli anziani sembrano muoversi, tra dramma, idillio ed elegia, tra il ricordo doloroso di un'infanzia e di una vita difficili, la contemplazione di un ideale equilibrio tra società e natura e la denuncia di una crisi di valori come il rispetto dell'autorità, la lealtà e un certo cameratismo agreste. 10 Non è un caso, infatti, che uno dei poeti elegiaci di maggiore interesse, l’ateniese Solone (VII-VI sec.), sia stato anche uno dei maggiori protagonisti della politica del suo tempo, un riformatore che segnò l’inizio del passaggio dal modello della polis governata dagli antichi ceti agrari latifondisti e aristocratici a quello di una polis "borghese", al cui governo partecipano anche nuovi ceti emergenti, mercantili e artigiani. La poetica di Solone, da questo punto di vista, non è tanto una poetica della nos- talgia, quanto una poetica della trasformazione, del superamento di certi vecchi valori e di certi vecchi assetti sociali ed isti- tuzionali che secondo il poeta stanno portando la propria città verso il disfacimento, verso nuove pericolose divisioni e contrapposizioni sociali. Resta tuttavia il filo di una poetica e la volontà di un’etica nuove, orientate più al benessere di tutta la collettività che al vantaggio di pochi, isolati, individui (Albini et al., 1982). 21 memoria ethnologica nr. 44 - 45 * iulie - decembrie 2012 ( An XII ) BIBLIOGRAFIA ALBERA D., CORTI P. (a cura di) (2000), La montagna mediterranea: una fabbrica d’uomini? Mobilità e migrazioni in una prospettiva comparata (secoli XV-XX), Gribaudo, Cavaller maggiore; ALBINI V., BORNMANN F., NALDINI M. (1982), Profilo storico di letteratura greca, Le Monnier, Firenze; ANDERSON B. 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